Cultura e Società

“Il traditore” di M. Bellocchio. Recensione di A. Falci

17/06/19

Autore: Amedeo Falci

Titolo: “Il traditore”

Dati sul film: regia di Marco Bellocchio, Italia, 2019, 145’

Genere: drammatico, biografico

 

PALERMO NON È FOTOGENICA!

PERCHÉ “IL TRADITORE” NON È “GOMORRA”.

 

Il film affronta l’ultima parte della vita di Tommaso Buscetta, detto Don Masino (Pierfrancesco Favino), affiliato a Cosa Nostra e, successivamente, collaboratore di giustizia, ben noto alle cronache del nostro Paese. Intorno a lui ruotano i suoi numerosi familiari, con il ruolo determinante (forse) per il suo pentimento svolto dall’ultima moglie, e anche il pantheon della Cupola e dei vari livelli dell’organizzazione criminale. Assistiamo alle grandi mattanze tra le famiglie mafiose e, al centro del film, quasi come segno di riscatto etico e giuridico dello stato, il maxi-processo di Palermo – tra il 1986 e il 1992 – con il suo andamento insieme drammatico e farsesco, e con i cruciali contraddittori tra i boss e il loro accusatore.

Le famiglie non si toccano. Oppure: famiglie che ti salvano e famiglie che ti scannano. Alla ricerca di una chiave di lettura del film di Bellocchio, questa potrebbe esserne una, in riferimento tanto alla famiglia privata, essenziale per il ‘pentitismo’ di Buscetta, quanto alla famiglia mafiosa che non si può né abbandonare né tradire mai. Asse di lettura in cui ritroviamo quell’interesse del regista per temi familiari contorti e disturbanti di tanta sua filmografia: da “I pugni in tasca” (1967) a “Nel nome del padre” (1971), da “L’ora di religione” (2002) a “Sorelle” (2006) e “Sorelle mai” (2010), fino a “Fai bei sogni” (2016), passando anche per “Buongiorno, notte” (2003) e “Vincere” (2009) che, anche se focalizzati rispettivamente sul delitto Moro e su Mussolini, presentavano forti riferimenti alla figura paterna.

Un’altra chiave, complementare, potrebbe essere la realizzazione di un film di denuncia e di impegno civile, come ben dimostrato dall’impianto didascalico e a tratti documentaristico dell’opera, come le scene del rientro di Buscetta in Italia, dell’autostrada sventrata della strage di Capaci, del funerale di Falcone, tutte tratte da servizi televisivi d’epoca. Didascalismo evidente nella versione decisamente positiva del collaboratore di giustizia, e anche in una serie di contrapposizioni nette: tra mafiosi spietati e mafiosi pentiti, tra criminalità primitiva ed efferata e forze dello Stato sane e corrette, anche se gli agenti di polizia come camerieri al servizio di Buscetta e Contorno sono forse una vistosa esagerazione, tra pochi eroici giudici isolati e infiltrati poteri occulti a Roma.

 

Eppure quest’opera, coinvolgente, intensa, filmicamente ricca di immagini, eventi e personaggi, con interpreti straordinari, suscita non poche perplessità circa il modo con cui Bellocchio abbia scelto di rappresentare non solo il tradimento o il pentimento mafioso, ma la stessa natura della “cosa” (nostra) mafiosa che, prima di essere sistema illegale violento a carattere nazionale e transnazionale, è soprattutto paradossale e maligno genius locigeo-antropologico della città ‘felicissima’ (L. Sciascia, R. La Duca, Palermo felicissima, 1973, Palermo).

 

La vita di Buscetta è qui divisa da una linea netta: mafia prima, pentimento dopo, con redenzione del protagonista rispetto al suo passato. Immagine che è funzionale a una rappresentazione schematica, bidimensionale: o con Cosa Nostra o con la mia famiglia. Non si riesce ad entrare tra quelle ombre contraddittorie e discrepanti del protagonista a cui l’opera sembra talvolta appena timidamente accennare, ma senza svilupparle. Mi riferisco a quella fretta di salvarsi lasciando i suoi due figli in mano ai nemici, a quelle ambigue testimonianze ‘deduttive’ sul coinvolgimento di Andreotti, a quei sospetti di un opportunismo economico alla base del pentitismo, e infine alla sostanziale appartenenza dell’uomo alla cultura e alle pratiche del sistema mafioso. L’uomo che poi consegna Cosa Nostra alla giustizia è stato pur sempre quel killer agli ordini che ha atteso disciplinatamente una trentina d’anni per portare a termine il suo compito. Episodio, credo, di nessun riscontro storico, ma che Bellocchio reinventa iperbolicamente per segnalarci la ‘formazione’ del soggetto. Ombre che tuttavia nel film non attenuano la luce positiva sul protagonista. Se alcuni critici hanno parlato persino di una ispirazione euripidea dell’opera, si potrebbe forse obiettare che un’opera con intenti di rappresentazione tragica in realtà avrebbe tentato di esplorare le più complesse ragioni umane e le contraddizioni di una vita misteriosa e ambigua tra il collocarsi dentro e fuori l’organizzazione mafiosa. Il che non avviene.

Bellocchio, non estraneo, come sappiamo, al mondo dell’opera lirica, opta in realtà per il registro del melodramma, per la forza romanzesca, estrema e violenta degli eventi, per l’intreccio coinvolgente delle famiglie mafiose, per la tipizzazione schematica dei personaggi, tutti a forti tinte, per la sollecitazione di intensi stati emozionali nello spettatore, per la mescolanza di elementi drammatici e farseschi insieme. Vedi il maxi-processo come esempio di sceneggiata; ma chissà, forse era davvero cosi.

E la tendenza melodrammatica alla stereotipizzazione dei caratteri, ha come rovescio di moneta delle inevitabili semplificazioni. Vedi come tutto il rapporto di Buscetta con il giudice Falcone ne risulti infatti ridotto di valore, sia a livello di sceneggiatura, sia a livello di verità storica. Viene minimizzato il suo ruolo ben più decisivo non solo nell’operazione di convincimento alla collaborazione di Don Masino, ma anche nella sua sapiente capacità di lettura e interpretazione del fenomeno mafioso come ben insediato dispositivo criminale di potere territoriale ed economico.

Follow the money! Ben altro che lo scambio di un pacchetto di sigarette che, nel film, sancisce l’amicizia e il reciproco rispetto ‘virile’ tra i due, come se fossimo in una serie TV. I dialoghi tra Don Masino e i suoi interlocutori inoltre appaiono risibilmente convenzionali, con frasi che ripropongono i clichés verbali e ideativi tipici dei personaggi, oppure risapute espressioni vernacolari. Come per il ben noto “Comandare è meglio di fottere” con cui Buscetta sintetizza, diciamo, la metafisica della ragion pratica di Totò Riina.

Ma si può immaginare di rappresentare gli scambi tra Falcone e Buscetta così? Per distillati di luoghi comuni? Sullo stesso filone, i contraddittori con i capi di Cosa Nostra, al maxi-processo, saranno magari fedeli trascrizioni dai verbali, ma appaiono deludenti come copione proprio in quanto non fanno emergere una credibile diversità tra gli interlocutori, come ci aspetteremmo in questi scontri tra diverse ideologie mafiose. Insomma, il film non azzarda nessuna riscrittura di personaggi e dialoghi.

Se, come dice il protagonista, non è lui che ha tradito Cosa Nostra, bensì è Cosa Nostra che ha tradito lui, in che cosa consisterebbero questi valori antichi di onore che Don Masino rivendica per la mafia di un tempo? In che cosa il suo modo di essere si differenzierebbe da quello di Riina e Calò? In questo cono d’ombra il film non entra. A questa vulgata (falsissima) che la mafia antica fosse una forma di giustizia contro lo stato ingiusto, una forma di ridistribuzione della ricchezza dei nobili a favore dei contadini poveri, nel film Falcone dà una smentita radicale. Ma l’opera nella sua totalità questa fabula di Don Masino non la decostruisce affatto, non la smonta, lasciandolo nella sua narrazione autoassolutoria e parziale, nostalgica e reticente, coraggiosa e opportunistica, quindi sostanzialmente mafiosa, che il passato era comunque meglio del presente.

E manca infine nel film la città. Bellocchio, a parte qualche fugace scorcio, proprio non la sa vedere, né la sa rappresentare. Manca l’atmosfera elusiva, imperscrutabile, reticente, omertosa, soffocante (forse miasmatica) di una città tutta mare, tutta porto (lo sappiamo: pan-òrmos, tutta sole e ‘felicissima’ (vedi Sciascia e La Duca). Drammaticamente, per triste antonomasia, crogiuolo e crocevia della mafia. A differenza di tante altre città italiane che hanno avuto la loro ricca rappresentazione filmica (di Roma non parliamo neanche), la città splendida, arrogante altezzosa e misera come i nobili decaduti, familista, sospettosa, diffidente e paranoide, ignorante, ingegnosa e colta, che vive di nostalgie gattopardesche e di narcisismo delle macerie, non ha mai avuto un film-maker che la sapesse fotografare, che sapesse cogliere queste molteplici teste dell’Idra. A parte le location de “La Piovra” e dei soliti film di mafia. E forse, in una certa misura, vi sono riusciti Roberta Torre con il suo musical “Tano da morire” (1997), Emma Dante con il suo “Via Castellana Bandiera” (2013), e il geniale, scurrilissimo, impresentabile e scorrettissimo “Cinico TV” di Ciprì e Maresco, negli anni ’90. La città non è fotogenica. È non rappresentabile (o non presentabile?). Oppure non è decifrabile, si camuffa (da ‘felicissima’), nasconde i luoghi e i modi segreti del suo scempio umano, culturale e urbanistico, della sua illegalità occulta, di un alt(r)o pervasivo e potente dominio territoriale.

 

Se siamo arrivati a parlare di città e illegalità, non si può qui sfuggire al confronto con chi, filmicamente, i luoghi del dominio illegale li ha invece colti, li ha saputi raccontare bene. “Il traditore” parte alla grande, con una grande festa che guarda al ballo de “Il gattopardo” visconteo (1963) da un lato, e alla festa di nozze de “Il padrino” coppoliano (1972) dall’altro, ma senza raggiungerne il respiro grandioso; tenta strade oniroidi che finiscono subito in binari morti. Verso metà si spezza più volte per le scene del maxiprocesso, e infine sembra smarrirsi e imboccare più conclusioni possibili che confondono lo spettatore. Di fronte a tanta dispersione narrativa, “Gomorra” di Matteo Garrone (2008), malgrado articolato in episodi, manteneva “un superbo controllo unitario” sulle storie, sulla multifocalità della violenza quotidiana, sulla capillarità territoriale dell’organizzazione criminale, eleggendo in Scampia “il baricentro geografico” (A. Baratti, Gomorra, “Gli Spietati” rivista cine on-line) e simbolico del film. Scampia non era Napoli, ma la rappresentava. Non uno scorcio occasionale, come la Palermo di Bellocchio, ma un luogo preciso, osservato da una fotografia distante, grigia e impersonale, più severa di ogni denuncia sociale e civile, che mostrava proprio la ‘filmabilità’ di un dominio totale del territorio, di un orrore netto, senza tanti Santi Gennaro e Rosalia, senza redenzione, e rimpianti nostalgici per le guapperie di un tempo. È proprio che Bellocchio, dal suo canto, non riesce proprio a dare un linguaggio nuovo alla materia trattata, rimane invischiato in uno stile antico, nella narrazione impegnata e di denuncia come negli anni ’80 e ’90, ritraendo una ‘cosa loro’ verticistica, criminale, disincarnata dalla città. Non anatomizza Don Masino per una lettura dell’antropologia criminale del territorio urbano. Ne fa un contro-eroe da fiction, un piccolo Pablo Escobar della Conca d’Oro, criminale ma di fascino, delinquente ma simpatico infine.

 

Dati questi limiti di concezione e di realizzazione del film, ne risulta una fiction di qualità e di grande impegno politico sociale, con attori eccellenti, ma che non esprimono nessuna antropologia, figuranti di una tragi-farsa popolare, e lontani dai rumori di fondo della città. Favino compie un’eccellente identificazione somato-psichica con i modi e la cultura del personaggio, arrivando ad una perfetta inflessione dialettale, con sonorità portoghesi, che potrebbe passare qualsiasi vaglio linguistico di ‘cosa nostra’. Bravissimi Fabrizio Ferracane, già apprezzato in “Anime nere” (2014) di Francesco Munzi, e Maria Fernanda Cândido, nella sua duplice valenza di compagna di grande appeal sensuale e di madre-capo di famiglia. Ma l’unico Oscar del film stavolta è da assegnare, sia pure per un ruolo secondario, alla straordinaria performance di Luigi Lo Cascio, che prestando corpo a quel personaggio assolutamente febbrile, scomposto, imprevedibile e ‘schizzato’ (in gergo giovanile) che è Contorno, riesce a importare il ‘fool’ del teatro shakespeariano nell’opera dei pupi di ‘cosa nostra’, in uno splendido lavoro di ricerca espressiva e linguistica, che gli permette di forgiare l’uso di un dialetto brutale e strettissimo, di irriferibile volgarità (guardare i sottotitoli), che neanche i panormiti ‘felicissimi’ sanno parlare. Figurarsi giudici e avvocati.

 

Giugno 2019

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