Parole-chiave: Totalitarismo, Storia, Disillusione
Autore: Amedeo Falci
Titolo: “Il Sol dell’avvenire”
Dati sul film: regia di Nanni Moretti, Italia 2023, 95’.
Genere: commedia drammatica
VEDERE IL PASSATO DAVANTI A NOI.
Citando malamente e a sproposito Winnicott (1967), che cosa vede lo spettatore quando guarda Moretti? Ciò che vede è se stesso. Se stesso come crede di essere stato molti (parecchi) decenni fa. Esattamene come dice il protagonista nel film: e se la storia si facesse anche con i ‘se…’? Se si potesse cambiare? Allora l‘unica cosa che possiamo vedere davanti a noi (e illuderci di cambiare!), non è il nostro futuro (di cui non possiamo saper nulla) bensì il nostro passato. Che andiamo migliorando man mano che ce lo andiamo narrando. Credo che sia di tale natura il patto di questa illusione segreta tra Moretti e il suo manipolo di fedeli (ex-giovani) spettatori. Si rispecchiano e si illudono di vivere in un passato migliore.
Dopo un brillante passato autoriale, adesso, invece, la capacità di inventare, di narrare filmicamente, da parte del nostro amato, non sembra affatto godere di una magnifica e splendente maturità espressiva. Lungo una curva discendente più evidente a partire da Mia madre (2015) in qua.
Se a proposito di Tre piani (2021) avevo scritto che il regista aveva ‘squadernato’ la struttura del bel libro di Eshkol Nevo, mortificandone la coerenza e il senso culturale ed emotivo tutto israeliano, quello che qui manca del tutto è una capacità di incastro e sapiente costruzione tra le varie tessere del mosaico dei due piani del film: la storia centrale e il metacinema.
Al posto dell’ambiziosa intenzione di un discorso sul cinema, Moretti risaccheggia abbondantemente temi e quadretti della sua stessa filmografia per un film che gira a vuoto. La parodia della psicoanalisi, la copertina all’uncinetto per accucciarsi nel divano, l’ostentazione dei gusti infantili, in Sogni d’oro (1981) la famosa nutella, qui il gelato; il musical incompiuto (Aprile, 1998); i patetici accenni di danza, lo scorrazzare in monopattino elettrico al posto della vespa, la tirata indignata contro i film violenti (Caro diario, 1993); i film irrealizzati (ancora Aprile; Mia madre, 2015); le idiosincrasie capricciose sulle scarpe (Bianca, 1983); le vasche in piscina (Palombella rossa, 1989). Il tutto immerso in intollerabili eloqui che trasudano supponenza e pedanteria molesta; e che potrebbero essere anche ironicamente accettabili se solo il nostro non fosse dotato di quell’umorismo triste, ostile e anti-simpatetico che impedisce sul nascere una vera sintonia emozionale con lo spettatore.
La dispersione in vari siparietti congela la costruzione di un pathos coinvolgente, per cui anche le pochissime scene di qualche intensità — soprattutto il dialogo tra i due innamorati, soprattutto perché incorniciato dalla struggente Canzone dell’amore perduto, di De Andrè — si perdono senza che il regista sappia creare un efficace climax narrativo, per cui tutto il film sembra che avanzi faticosamente con una scena appesa all’altra.
Come notato a proposito di Habemus papam (2011), Moretti protagonista e attore non giova affatto ai film di Moretti. Considerazione qui aggravata da un più vistoso decadimento artistico e dall’esaltazione delle sue stereotipie caratteriali che inficiano nettamente la sua resa espressiva. Di tutt’altra natura, e ci preoccupa, la difficoltà nella parola — già evidente in Tre piani — che appare rallentata e a tratti scandita.
Lascia infine perplessi la confusa tematica ‘politica’ del film nel film. Che cosa c’entra l’ingenua nostalgia (postuma) per il ‘sano comunismo italiano’ degli anni ’50, con la citazione di Rosa Luxemburg e addirittura con il ritratto di Lev Trockij nella marcia finale? Roba che non stava insieme. È forse questo il futuro che Moretti ci prospetta nella profonda crisi personale e sociale nel mondo in cui viviamo? NM ci prospetta semplicemente il passato. Il passato ri-narrato e ri-idealizzato. Egli stesso ormai irriconoscibile rispetto ad un passato in cui fu irriverente, simpatico ed originale autore, dopo un esausto film che era iniziato con la promessa di un chiaro prestito da La Grande bellezza di Sorrentino (l’originale — l’unica — scena iniziale della pittura del titolo del film sulle murate del lungotevere), ci conduce ad una patetica marcia finale, con tutti gli interpreti del cinema morettiano, in una scena che vorrebbe essere una ambiziosa e autoreferenziale citazione del finale dell’8½ felliniano, ma che in realtà, semmai, rende ancora più palese, tristemente, la misura dell’incommensurabile distanza tra la genialità e la decadenza creativa.
Aprile 2023