Cultura e Società

“Il seme del fico sacro” di M. Rasoulof. Recensione di M.G. Gallo

24/03/25
"Il seme del fico sacro" di M. Rasoulof. Recensione di P. Santinon

Parole chiave: violenza, paranoia, libertà,  cecità,  sessuofobia

Autore: Maria Grazia Gallo

Titolo: “Il seme del fico sacro” Titolo originale: (“The seed of the sacred fig”)

Dati sul film: regia di M. Rasoulof, 2025,168

Genere: drammatico

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Il ficus del titolo è una pianta infestante così come la dittatura teocratica che costringe milioni d’iraniani a lasciare l’Iran. Il regista esule Rasoulof (Orso d’oro a Berlino per “Il male non esiste” e vincitore a Cannes del premio speciale della giuria) è tra questi: condannato due volte per propaganda contro il regime, è scappato a piedi dal suo paese d’origine e attualmente vive in Germania.

Prima di scappare, come suo ultimo atto di resistenza contro il regime oppressivo, ha girato in clandestinità e in una condizione di rischio continuo questo film.

Racconta il regista che lo spunto al film gli è stato dato dalla visita, mentre era nel carcere di Evin, (quello stesso che ha visto prigioniera e ostaggio Cecilia Sala), di un alto funzionario governativo che gli riferì di essere talmente angosciato e dilaniato dal suo ruolo, da volersi impiccare.

Anche Iman (Missagh Zareh), il protagonista del film, capofamiglia e promosso a Giudice istruttore del Tribunale di Guardia Rivoluzionaria al servizio del regime degli Ahyatollah è inizialmente ambivalente e afflitto da un dilemma morale rispetto al suo compito: deve condannare accusati di reati contro il regime senza neanche averne letto il fascicolo.

È marito di una moglie devota (Najmeh, l’attivista Soheila Golestani) e padre di due figlie: la ventunenne Rezvan (Mahsa Rostami) e l’adolescente Sana (Setareh Maleki) e vuole procurare loro ancora maggiore benessere e opportunità.

La sua promozione è coincisa con lo scoppio a Teheran nel ’22 delle manifestazioni di piazza del Movimento Donne, vita, libertà, dopo la morte di Mahsa Amin, triste e angosciante realtà riportata dal regista attraverso filmati/video reali ripresi dai cellulari. 

Il ruolo di Iman sarà sempre più messo in discussione non solo dallo scontro generazionale con le due figlie che s’identificano e abbracciano in segreto la rivoluzione, ma dagli stessi eventi che precipitano: la famiglia diventa specchio di una società dalle profonde rotture, dove regna l’abuso di potere, la violenza, la cultura a tinte paranoiche del sospetto e dei segreti.

Stati mentali che Meltzer (1967) e Rosenfeld (1971) ben ci descrivono nei loro lavori sulle organizzazioni narcisistiche e gli oggetti primitivi distruttivi.

De Masi (1999) parla della “patologia perversa” che quando è “solidamente radicata e sviluppata “diventa “uno stato della mente che coincide con una visione del mondo in cui domina il principio del potere” e prende forma nelle “manifestazioni socializzate dei grandi gruppi, […] nelle “sindromi psicosociali” e soprattutto in quelle che si manifestano con il potere, la tirannia, la distruttività”.

Nessuno si sente più sicuro in famiglia, a partire dallo stesso protagonista, soprattutto dopo la sparizione della pistola d’ordinanza consegnatagli all’inizio dell’incarico: se non la ritrova sarà destituito e rischierà il carcere.

Ma chi ha preso la pistola e perché? E quest’ultima protegge la famiglia o è strumento di repressione e violenza, il precipitato di quello che sta accadendo nel paese? Di fatto la pistola, come dice lo stesso regista “è una metafora del potere in senso lato, ma crea anche un’opportunità per i personaggi principali della storia di rivelare i propri segreti, segreti che emergono gradualmente, con risultati tragici”.

Dalla sparizione della pistola tutto crolla e inizia una vera e propria spirale di paura e sospetto: la casa diventa una vera e propria prigione il cui carceriere e inquisitore è Iman sempre più identificato nel ruolo, espressione di un mondo maschile e di uno establishment governativo repressivo e dispotico.

Il tutto in un crescendo di delirio paranoico politico e religioso.

Le tre donne di famiglia, come le donne nelle piazze infiammate dalla rivolta, prendono sempre più coscienza delle limitazioni delle proprie libertà individuali: anche la madre dismette il suo ruolo d’intermediaria tra le regole dittatoriali del giudice/padre e le rivendicazioni delle figlie, soprattutto quando un’amica della maggiore viene gravemente sfigurata durante una manifestazione e soccorsa segretamente in casa.

Non ci sarà più mediazione, ma coalizione tra le tre contro il padre e marito tirannico (Platone, Repubblica)

La scena finale è altamente simbolica: Iman insegue, con un ritmo incalzante e angosciante, le figlie e la moglie, in un labirinto (che è anche quello suo mentale) di una città in rovina in pieno deserto, così come la società iraniana che sta rovinosamente precipitando insieme all’orrore della tirannia (ibid.) disumanizzante a causa del suo regime.

Un film potente dai diversi rimandi e registri: thriller psicologico e politico, con echi di Hitchcock e di Kubrik (vedi il celebre inseguimento in Shining), ma soprattutto una voce al megafono, come quello che usa l’adolescente Sana, che grida il coraggio della vita e della libertà.

Bibliografia

Platone, Repubblica libro IX

De Masi F. (1999). La perversione sadomasochistica. Torino, Boringhieri

Meltzer D. (1967)Terrore, persecuzione, paura: disamina delle angosce paranoidi. In: Bott Spillius E. (a cura di) (1988), Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi, vol. I, Roma, Astrolabio, 1995.

Rosenfeld H.A. (1971) A clinical Approach to the Psychoanalytic Theory of the Life and Death Instinct, Int. J. Psychoanal., vol.52

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