di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, Brasile, Italia, Francia, 100’)
commento di Amedeo Falci
LA TERRA È FOTOGENICA
È da “Palermo shooting” (2008) – non certo tra i film meglio riusciti di Wim Wenders, come altri del resto, dopo l’apicale “Il cielo sopra Berlino” (1987) – che il regista tedesco si è rituffato nuovamente in produzioni documentaristiche, abbastanza frequenti, del resto, nella sua filmografia; e forse pari al numero di realizzazioni filmiche vere e proprie. Chi non ricorda il “Buena Vista Social Club” (1999) ed l’intensissimo “Pina” (2011), dedicato alla Bausch? Del resto Wim Wenders è un regista dal profilo discontinuo. A film che hanno segnato la storia del cinema europeo e occidentale, degli ultimi, diciamo, quattro decenni, ne sono succeduti altri che sarebbe stato meglio dimenticare, e che sarebbe conveniente per tutti attribuire ad un scarso replicante di sottomarca cinese.
Molti elementi farebbero tuttavia pensare, qui, al Wim Wenders originale. Al centro del film, interamente protagonista la fotografia e la biografia creativa di Sebastião Salgado. Un film, in un certo senso, che è un omaggio, ma anche una ‘resa’ del Wenders cineasta. Un atto di rinuncia al cinema di narrazioni, di immagini in movimento; un omaggio all’ immagine ferma della fotografia. Un nodo problematico non nuovo del cinema wendersiano. La sua riflessione, ad es., in “Fino alla fine del mondo” (1991), sulla contrapposizione tra i due registri dell’ immagine e del testo scritto, o se si vuole dell’ immagine tout court contro le immagini narrate.
Con l’omaggio a Salgado, alla sua biografia personale, ed alla sua biografia per immagini, Wenders credo voglia offrirci i suoi ripensamenti sui linguaggi di ripresa dei paesaggi. In questo “Il sale della terra”: un linguaggio sulla ripresa della natura fondamentalmente diverso dalla natura riprodotta dal cinema. Se il paesaggio cinematografico è basilarmente al servizio dell’attrazione dello spettatore, fa da sfondo e da coprotagonista della storia narrata, è spazio scenico vuoto da riempire — qui, attraverso la testimonianza della foto, diventa paesaggio come protagonista assoluto, abitato e trasformato dell’ uomo. L’omaggio alla foto salgadiana è l’omaggio ad un paesaggio antropizzato, anche nudo di presenze umane, ma arato deturpato e cicatrizzato dal calpestio della storia umana. L’intento di Salgado non è mai quello di ritrarre una natura nostalgicamente tesa ad un passato intatto, primigenio, edenico, prima della comparsa dell’ uomo (ed dei suoi ‘peccati’ contro la natura). Il mito di una Natura Originaria, Incontaminata e Benigna. La Natura come impronta di Dio. (caro Giacomo Leopardi, passagli tu qualche tua idea sulla ‘natura’!).
In questo senso la filosofia della foto di Salgado (e quindi di Wim Wenders) si colloca antipodicamente alla filosofia dei film di un Terence Malick, il quale ci consegna, invece, una natura ‘come avrebbe dovuto restare dal giorno della creazione’. Si vedano, esemplarmente, alcuni passaggi del suo (Malick) film più (per me) riuscito. “La sottile linea rossa” del 1998. Mentre seguiamo i movimenti delle truppe americane che si inerpicano per le colline di Guadalcanal, la macchina da presa, qua e là, si perde a sorprendere, tra l’erba alta, ranocchi, bisce, insetti. È chiara la cifra simbolizzante di Malick che vuole rappresentare l’effrazione violenta della storia umana, e della guerra, su una natura vergine, intatta ed incorrotta dall’umano, e ‘buona’, ‘come avrebbe dovuto rimanere’.
Ma non sono questi mitologhemi della cultura di Salgado. E anche se la sua ultima produzione – Genesis – è stata una idea di atlante geoantropologico delle zone ancora incontaminate del pianeta, questa ricerca non è declinata in senso nostalgico restaurativo, ma va nel senso di un manifesto estetico politico di allarme per gli incipienti segni di dissipazione e rovina delle risorse naturali del nostro pianeta.
Genesis, come approdo finale, dunque, della ricerca di Salgado. Da Workers (1993), a Migrations (2000), a The Children (2000), a Sahel (2004), ad Africa (2007), fino a Genesis (2013), appunto, itinerario fotografico di incontro con la terra ed il pianeta, tappa precorritrice della fondazione dell’ ‘Instituto Terra’ (1998), progetto, portato poi a termine, di ripopolamento di una vasta zona di foresta, offerta infine, come riserva naturale.
Quindi quali linguaggi per la rappresentazione dei paesaggi? E per le immagini della terra? Ecco, credo, le domande centrali dei due registi, Wenders & Juliano Ribeiro Salgado. Il punto non sta tanto delle immagini di terra come oggetto muto e morto, nelle sue varie accezioni – paesaggi, estensioni coltivabili, humus, deserti, campagne, montagne, o pianeta. Ma nell’evidenza che tutte le immagini fotografiche di ‘terra’ sono sempre prodotti semantizzati che si offrono all’interpretazione. Pensiamo, ad esempio, ai paesaggi dei western. A che cosa ‘servono’ allo spettatore? ‘Servono’, eccome, in quanto marcatori semantici che connotano le codificazioni basilari per la fruizione del western. Che cosa proviamo, ad esempio, osservando i paesaggi della Monument Valley dei tanti film di John Ford? Una mescolanza di decifrazioni che potremmo enumerare (qui seguo Jones H.M.,”O Strange New World: American Culture-The Formative Years”, 1964) come ‘stupore’, ‘sbigottimento’ , ‘ammirazione e terrore’, ‘equiparazione tra primitivismo grandioso della natura e primitivismo selvaggio dei nativi americani’, ‘contrasto tra la natura indomata e senza tempo e la cultura ‘evoluta’ e moderna degli angloamericani’, ‘vastità geografica e dispersione spaziale’, ‘contrasti paesaggistici ipnotici (picchi rocciosi in un contesto desertico)’ ‘rimpianto malinconico di una natura mitica’, e forse altro ancora. Senza questi elementi chiave non potremmo muoverci nei codici narrativi della filmica western. Ecco perché basta andare a girare un western in Almeria (Spagna), vedi un certo Sergio Leone, e le codificazioni (anche paesaggistiche) del genere western subiscono un radicale mutamento.
In un modo interessante, Wenders invece, celebra, qui, uno smontaggio tra paesaggio, immagine, storia filmica e cinema, adottando il punto di vista salgadiano di un’immagine di paesaggio antropologico ‘decostruita ‘da ogni naturalismo letterario, teatrale, cinematografico’ (Antonio Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock, 2014), e da ogni traccia di storia narrativa convenzionale. Il cineasta Wenders offre quindi un omaggio al valore della fotografia, e non soltanto alla personalità creativa del maestro brasiliano.
Il primato dunque di una forza di immagine, piena di una densità etica, di grande valore plastico e lirico, che è anche, in Salgado, frutto di una superba maestria nella tecnica dello sviluppo (che tuttavia, nel tuo film, caro Wenders, tu trascuri alla grande; come mai?) che porta a quelle rese, ipersaturate nei contrasti di bianchi, neri, grigi, che sono la cifra stilistica del nostro.
Un film chiaro, luminoso, semplice, ‘politico’, nel senso sopra detto. Ma anche un film generoso ed antiinvidioso. Come è ‘iperrarissimo’ nel mondo dello spettacolo. Gravato da protagonismo, autoesaltazione narcisistica, culto della propria immagine, della propria personalità artistica, delle proprie idee, odio e disprezzo totale verso colleghi e rivali, meschinità, invidia mortale, ovviamente, e attacchi di rabbia biliosa al successo degli altri. …. Ma no, parlavo solo degli artisti. Una grande umiltà, dunque, quella di Wim Wenders, che gli permette di mettersi momentaneamente da parte per dedicarsi ad altre personalità particolarmente creative. Come ha già dimostrato di saper fare. A parte il già citato omaggio a Pina Bausch, vedi anche “Tokyo-Ga” (1985), omaggio al regista Ozu, ed “Appunti di viaggio su moda e città” (1989), dedicato alla produzione creativa del disegnatore di moda Yamamoto.
Un ritorno alla grande, ed un palese manifesto estetico di Wenders, che pur nel tributo alla fotografia e ad un suo maestro contemporaneo, non si eclissa del tutto, costruendo, comunque, una ‘storia’ filmica minimale. Con i suoi personaggi ‘dal vero’, con una sua trama minima, con una sua vibrazione emozionale che non cede mai, malgrado l’assenza di ‘azione’, e che, semmai, si intensifica fino all’approdo alla fondazione dell’Instituto Terra, punto conclusivo di una vita, di un impegno, di una, in fondo, militanza estetica. Con un bel ritratto anche umano, umanissimo di Salgado, di cui si accenna, con grande rispetto e pudore, della sua crisi depressiva, post viaggi africani, che lo avrebbe spinto molto vicino all’abbandono del suo lavoro.
E in fondo film, anche, su una bella e intensa storia di incastri e passaggi tra tre generazioni di Salgado, nonno, figlio, nipote, in un bell’intreccio tra bisogni di fuga, e periodici ritorni. Sebastião, prima fugge da suo padre e dalla famiglia, poi fugge da sua moglie e dai suoi figli. Ma ritorna. Alla lunga. Una bella storia familiare. Di padri lontani e figli che aspettano. E viceversa. Di padri che attendono figli che si allontanano. Una bella storia di figli e padri. Ma questa volta, intelligente.
dicembre 2014