di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, Brasile, Italia, Francia, 100’
“Mi interessa l’avventura del processo creativo. Fare dei documentari significa stabilire un dialogo, che si tratti di Pina Bausch o di un gruppo di musicisti cubani. (…). La mia sapienza tecnica ne incontra un’altra, e cerca un punto di contatto. Parliamo di un luogo fisico e metafisico in cui si verificano l’incontro e il rispecchiamento di due forze: la mia e la sua: Il risultato è proprio l’abbraccio di due arti, sapienze e storie”.
(W. Wenders, 2014).
“Una foto non parla solo di chi è ritratto ma, anche di chi ritrae”.
(S. Salgado, Il sale della terra, 2014)
“La mia fotografia non è affatto obiettiva, è profondamente soggettiva. (…) scatto immagini in funzione di me stesso, di quello che mi passa per la testa, di ciò che sto vivendo e pensando. E me ne assumo la responsabilità”.
(S. Salgado, Dalla Mia Terra alla Terra, 2014)
Tre esergo o, con maggior precisione, tre citazioni sul processo creativo così come inteso da due artisti: W. Wenders, regista, e S. Salgado, fotografo, protagonista del suo ultimo film.
Un incontro recente con origini remote, il loro, quasi a costituire l’inevitabile punto di arrivo di un percorso diverso e, allo stesso tempo, simile. Coetanei, una vita vissuta intensamente, una passione condivisa per la luce, l’immagine, il viaggio, l’attesa e, da più di vent’ anni, due foto di Salgado appese sopra la scrivania del regista.
“Così vicini, così lontani…”
Wenders, fotografo prima di diventare regista, nei suoi viaggi ha sempre portato con sé la macchina fotografica. Strumento necessario per scegliere l’ambientazione dei film ma, anche, mezzo essenziale per realizzare immagini – per lo più panoramiche da riprodurre in grandi dimensioni – che aggiungono valore all’esperienza del viaggiare e fermano l’unicità dell’istante.
In un suo libro – Immagini dal pianeta Terra – il cui titolo sembra preludere all’incontro con Salgado afferma: “Ogni foto ci ricorda la nostra mortalità. Ogni foto tratta della vita e della morte”. Non a caso nel cinema di Wenders l’immagine – sempre combinata alla suggestione della colonna sonora – àncora lo sguardo al presente nello stesso istante in cui il suo persistere lo rimanda ad un tempo altro. Quasi ad evitare, forse, che la scena, così come la vita, sfugga.
Salgado, fotografo dopo aver abbandonato una carriera nel campo dell’economia, da più di quarant’anni viaggia attraverso il globo per realizzare racconti fotografici che ritraggono l’uomo nella sua relazione con l’ambiente, il lavoro, la sofferenza, la morte. Impossibile individuare che cosa lo abbia spinto in un’ avventura, quella fotografica, che gli consentiva o lo obbligava – dipende ovviamente dal punto di vista – a rivolgere il suo interesse altrove, a spostarsi, ad allontanarsi dai posti e dagli affetti originari per ritrovarli in un luogo nuovo.
Nel tentativo di individuare i motivi di questa svolta – da giovane economista che organizza progetti di sviluppo economico in Africa per conto della Banca Mondiale, la FAO e le Nazioni Unite a fotografo freelance – Salgado ricorda la fascinazione dei primi scatti esguiti con la fotocamera di Leila, la giovane moglie, la sua capacità di sostenerlo in questo cambiamento e, successivamente, l’intenzione cosciente di testimoniare la realtà e di “dar voce” ai soggetti dei suoi ritratti. Ma, al di là di questo sforzo di ricostruire a posteriori il suo percorso, in modo assai più autentico, afferma (2014): “Non posso dire che siano decisioni razionali quelle che mi portano in giro a vedere il mondo. È un’esigenza che proviene dal profondo di me stesso. È il desiderio di fotografare quello che mi spinge di continuo a ripartire. Ad andare a vedere altrove. A realizzare sempre e comunque nuove immagini.”
Da molti – critici, storici della fotografia, artisti o intellettuali – considerato il grande testimone dell’umanità dei nostri giorni tanto da vociferare la sua possibile (ed esagerata, a parere di chi scrive) candidatura al Nobel per la Pace, da alcuni criticato a causa di quella sorta di pulsione voyeristica che lo spinge a ricercare la sofferenza e a riproporla attraverso un filtro estetizzante.
Comunque sia – il processo creativo, come ben noto, rimane sempre un mistero – ogni suo reportage è il risultato di anni trascorsi sul luogo e ogni suo scatto riflette l’attesa e l’intimo contatto che Salgado stabilisce con l’oggetto. Sequenze d’immagini che racchiudono il concetto di origine e fine: fine intesa come morte e, all’opposto, come missione da compiere per testimoniare l’ “apocalisse” e porvi un limite. “Genesi” – il suo ultimo lavoro – esprime il desiderio di riparare la potenza distruttiva dell’uomo attraverso il ritorno alla natura incontaminata. “Il Sale della Terra”- ultimo documentario di Wenders – ci fa conoscere il percorso di un uomo che ha documentato conflitti, migrazioni, carestie e genocidi senza mai dimenticare il luogo e gli affetti delle origini. Solo qui, nel luogo dove egli è nato e cresciuto, la vita potrà ritrovare nuovo slancio e il cerchio chiudersi.
Il documentario – nato da un’idea del figlio del fotografo brasiliano, Juliano Ribeiro Salgado, e girato quasi interamente in bianco e nero – è quindi il risultato di un incontro che proviene da lontano.
Un lavoro durato più di due anni in cui il fotografo – interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e accompagnato nel viaggio dal figlio – si svela affidando il proprio ritratto a una straordinaria selezione di immagini interrotte da ricordi, vecchi Super8 e alcune riprese tratte dal documentario di Juliano. Una “camera oscura” – creata tramite l’utilizzo di uno specchio semitrasparente – ci consente di osservarlo mentre guarda le foto e, allo stesso tempo, lo spettatore. Salgado sembra emergere dalle foto e il suo volto si mescola ad esse come se fossero fatti della stessa materia grazie ad una tecnica di ripresa talmente semplice da poter essere pensata solo da Wenders, un grande regista che ama l’ immagine. “La mia sapienza tecnica ne incontra un’altra, e cerca un punto di contatto. Parliamo di un luogo fisico e metafisico in cui si verificano l’incontro e il rispecchiamento di due forze: la mia e la sua: Il risultato è proprio l’ abbraccio di due arti, sapienze e storie” (W. Wenders, 2014).
Una capacità di farsi da parte, quella di Wenders, volta ad evocare l’ universo e il metodo di lavoro di Salgado imitandone lo stile visivo. È questo, per il regista tedesco, l’unico modo per far conoscere il lavoro di un artista che pur dichiarando di voler sparire nelle sue immagini enfatizza la soggettività delle sue foto. Quasi a suggerirci senza alcuna intenzione cosciente, come spesso capita agli artisti, che la soggettività coincide con quel preciso atto psichico che consente di comporre un’immagine inserendo alcuni elementi a scapito di altri che vengono ignorati, esclusi, tagliati.
Una soggettività che si rende evidente in un istante, quello di un click, che riflette la storia individuale e rivela la personale visione del mondo. La libertà di comunicare la propria Weltanschauung a chi la saprà vedere, a chi la vorrà cogliere. Qui le parole non servono.
Bibliografia
S. Salgado “Dalla mia terra alla Terra”. Contrasto, 2014
W. Wenders ” Immagini dal Pianeta Terra”. Contrasto, 2005
Novembre 2014