Dati sul film: regia di Gianfranco Rosi, Italia, 2013, 93′
Trailer:
Genere: documentario
Trama
Il documentario di Gianfranco Rosi ‘Il Sacro GRA’, ovvero il Grande Raccordo Anulare, che circonda Roma ‘come un anello di Saturno’, ha vinto il Leone d’Oro della 70esima Mostra del cinema di Venezia.
Dalle riprese aeree che inquadrano una periferia desolata, percorsa dalle strade trafficate, l’occhio della cinepresa si avvicina ai bordi delle strade, esita sulla soglia di finestre di microscopici appartamenti, entra in un palazzo fatiscente, in baracche di pescatori, in case di gente qualunque, si aggira in un’oasi di palme, si apposta dentro ad un’ambulanza. Seguendo questa traiettoria di progressivo avvicinamento, il regista ci accompagna ad incontrare le persone che, in questo anello di Saturno, ci vivono, e non sono extraterrestri: ‘In un luogo privo di identità ci sono personaggi con fortissima identità’, ha dichiarato lo stesso regista.
Andare o non andare a vedere il film?
Il paesaggista-urbanista Nicolò Bassetti, ideatore del progetto, ha esplorato il GRA, un ‘non-luogo’ per eccellenza, venti giorni a piedi, zaino in spalla, Gianfranco Rosi ha girato il film muovendosi con la troupe in minivan e Jacopo Quadri ha lavorato al montaggio per otto mesi. Ne è valsa la pena: la visione del film trasmette impegno, passione, emozioni. Bertolucci e la sua Giuria hanno avuto il merito di sdoganare definitivamente, con questa scelta, il genere documentario, in Italia non valorizzato come meriterebbe.
Rosi, cogliendo i frammenti della vita quotidiana delle persone cui si avvicina, le conversazioni pacate, i racconti sommessi, i gesti e i comportamenti semplici e usuali, fa emergere la loro umanità, vitalità e dignità, a far intuire le loro storie, evocare i loro bisogni e i loro desideri. Non c’è ombra di giudizio né retorica. Il regista pare riuscire, attraverso uno sguardo attento e un ascolto rispettoso, che non prende mai il sopravvento, a calibrare ‘la giusta distanza’ tra la macchina da presa ed ogni singolo ‘protagonista’, che si espone con naturalezza e autenticità.
La versione di uno psicoanalista
Questo film mi ha fatto venire in mente il saggio di Didi-Hubermann ‘Come le lucciole. Per una politica delle sopravvivenze’ (2010, Boringhieri). In questo scritto, il filosofo francese ricorda che nel 1975 Pasolini ha teorizzato la ‘scomparsa delle lucciole’, metafora della scomparsa dell’umanità per eccellenza, non tanto nel buio, quanto, piuttosto, sotto la luce accecante di riflettori feroci. Egli sostiene che le lucciole scompaiono alla nostra vista nella misura in cui non le cerchiamo, rinunciamo a seguirle là dove sarebbe possibile trovarle. É necessario fornirsi degli strumenti adatti per vederle apparire nei luoghi e nei tempi della loro sopravvivenza, in questo presente sovraesposto, saturo di informazioni, come ricorda anche Rosi. Per questo ci vuole coraggio, poesia e un’attenzione etica al volto umano qualunque, che riescano ad individuare ‘zone o reti di sopravvivenza’.
Si può dire che le immagini di questo film sono immagini-lucciole: rendono visibili e condivisibili scintille di umanità, preziose per una fiducia nel futuro.
Anche la psicoanalisi può essere uno strumento adatto per cercare, e trovare, le lucciole.