di Nuri Bilge Ceylan, Turchia, Germania, Francia, 2014, 196 min.
commento di Amedeo Falci
Bergman in Cappadocia
Sovradimensionato ed eccedente (più di duecento ore di girato, un primo original cut di quattro ore e mezza, ridotto successivamente a ‘sole’ tre ore e un quarto) il film di Ceylan ritenta ritmi e paesaggi (ma non nella trama da ‘giallo’) del suo precedente “C’era una volta in Anatolia” (2011). Ma in Cappadocia.
Sovradimensionato ed eccedente come l’abuso di parlato che contrasta con la muta sconvolgente bellezza degli sfondi.
Eppure l’incipit è catturante. Un uomo, solitario, incerto, disperso in un paesaggio roccioso inospitale, desertico. Una geografia allegorica che sarebbe stato meglio accompagnata, non dico da una afasia dei protagonisti, ma almeno da qualche forma di parsimonia verbale, che servisse a punteggiare meglio i silenzi della natura. Invece cominciano a parlare. I personaggi. Parlano, parlano e straparlano. Ecco la prima commistione. È difficile coniugare l’evidente ispirazione bergmaniana dei dialoghi ‘morali’ (ma Bergman era molto più essenziale!) con la nudità concettuale che lo sfondo esprime. Nè è ipereloquente (!), testimonianza lo sfibrante dialogo tra il protagonista Aydin e la sorella Necla, sulla questione se la non-resistenza al male non sia il modo migliore, infine, di combatterlo. Ma è il dialogo tra fratello e sorella da “Brava gente”di Checov! Che lì rende il senso dell’irresolvibilità e della inconcludibilità di molti eventi della vita, mentre qui rimane un segmento senza sviluppo nel percorso diegetico del film.
Ispirazioni letterarie o altre commistioni? Ancora pienamente checoviana (da “Una moglie”) la seconda parte del film centrata sul contrasto tra lo stesso Aydin e la moglie Nihal (una bravissima Melisa Sözen, in assoluto la migliore e più convinta presenza in scena). L’invito agli ospiti nella casa del marito, di cui lei non gradisce la presenza, il sentimento, tra i due, di una ferita, di una frattura più profonda e, forse, irreparabile, della loro unione. E pienamente dostoevskijano (come clima –‘isba’, steppa, neve –, come tema, come personaggi) l’inserto della casa in affitto, de pignoramento ai poveri, del ‘delinquente’ che brucia per la sua dignità senza prezzo l’ingente somma di danaro che non può riparare il torto.
Ma queste diverse fonti ispirative non risultano tuttavia ben fuse insieme, ed esitano in un intreccio semplificato di almeno quattro schematiche parti: dialogo con la sorella, dialogo con la moglie, i diseredati, gruppo dei maschi. A differenza del fondamentale uso del flash back, ad esempio, che riorganizzava e risignificava tutto l’intreccio del precedente film di Ceylan.
Forse uno dei difetti fondamentali direi risieda nella incertezza di scrittura del personaggio principale, Aydin per l’appunto. Un intellettuale di provincia sconfitto e ‘dormiente’ (il titolo inglese suona “Winter sleep”), un epicureico ‘vivi nascosto’, un filantropo e benefattore, un ex-attore, un benestante possidente, un laico nazionalista che patteggia con il valore aggregante della religione, un abile conformista, un ricco affittuario insensibile alle ragioni dei ‘poveri’, un progressista che delega i rapporti di classe al suo delegato, un tenero marito ‘anziano’ e protettivo, un marito paternalista ed invadente? Il punto è che la scrittura, in sede di sceneggiatura, invece di rendere le complesse sfaccettature del personaggio, ne moltiplica e ne giustappone i diversi tratti, senza saperli fondere in un personaggio esteticamente credibile. Ritraendo, infine, un personaggio inesplicabile e irrisolto che, dopo la galleria dei personaggi sopra descritti, giusto nelle sequenze di chiusura, si presenta come il ‘vecchio’. Il – direbbe qualcuno – ‘sembiante del Padre’ che si arrende al ritorno a casa, alla accettazione del declino e della morte accanto alla ‘Moglie’. E tutto attraverso il passaggio simbolico della Morte vista nella preda uccisa, che lo reintegra nella gruppalità maschile (leggi: bevono e c*z******no), nella cultura dei cacciatori (antichissima), nel mitologico ritorno a casa. (ma Bergman l’avrebbe ‘detto’ con meno retorica e meno sbrodolamenti).
Un film magniloquente dunque. Interessante, anche. Bello, persino. Bello e impossibile. Per la sua presuntuosa prolissità. Il regista tenta un replay di lunghe storie nel Far (Middle) East desertico e stepposo e roccioso, ma non gli riesce di ripetere il fascino originale di “C’era una volta in Anatolia”. Ed il tentativo di descrivere le contraddizioni dell’intellettuale borghese che aspira alla modernità (la moglie giovane, laicismo, Istanbul), ma è incistato nel passato (le case nella roccia), rimane vago ed incompiuto. Troppe ispirazioni filmiche e letterarie (dimenticavo: c’è anche Shakespeare) producono un’amalgama saccente, restano schegge senza una direzione, nell’ attesa che la lunghezza del racconto supplisca al corto circuito argomentativo.
Un premio speciale al Protagonista Principale. La Cappadocia. Se gli straordinari scenari naturali vogliono citare un realismo ‘forte’ con un suo linguaggio ed una sua forza espressiva dove vastità, piogge, fanghi ed immagini sono parte integrante della storia, allora questo appare riuscito, in quanto solo essi sostengono e danno continuità al film.
Tuttavia questo non può che richiamare il confronto, a mio avviso, con il grande antagonista estetico di Ceylan, con cui implicitamente il regista turco si misura, l’iraniano Abbas Kiarostami, e con il suo uso dei luoghi naturali. Ma con grandi differenze. Il cinema di Kiarostami è reticente, è fatto di cose e personaggi che non vogliono apparire più di tanto, di luoghi minimi senza retorica, anche banali e senza fascino, di non-panorami mozzafiato, dove i protagonisti dicono il minimo indispensabile per lasciar parlare la semplice nudità degli eventi. Giacché il metodo di Kiarostami è restringere ed essiccare, e non allargare e inondare.
Ottobre 2014