Cultura e Società

“Il processo ai Chicago 7” di A. Sorkin. Recensione di S. Monetti

3/11/20
"Il processo ai Chicago 7" di A. Sorkin. Recensione di S. Monetti

Autore: Stefano Monetti

Titolo: “Il processo ai Chicago 7” (“The trial of the Chicago 7”)

Regia di Aaron Sorkin, USA, 2020, 130’, Netflix

Genere: drammatico

 

 

 

 

Il processo ai Chicago 7, film di Aaron Sorkin commissionato da Steven Spielberg, narra una storia realmente accaduta: il processo a sette leader di movimenti attivisti americani per gli scontri avvenuti il 28 agosto 1968 alla Convention Democratica di Chicago. Le proteste furono duramente represse dalla polizia e dalla Guardia Nazionale, responsabili di pesanti violenze sui manifestanti: molti rimasero gravemente feriti, altri furono arrestati. La manifestazione, che voleva essere pacifica, contestava principalmente lescalation della guerra in Vietnam decisa dal presidente democratico Lyndon B. Johnson, succeduto a Kennedy (il termine escalation nasce proprio per descrivere il maggiore impegno bellico statunitense in Vietnam a partire dal 1964).

Il processo avvenne mesi dopo, disposto nel 1969 da John Mitchell, il procuratore generale del presidente Nixon, dopo che il suo predecessore, Ramsey Clark, aveva deciso di non procedere, ritenendo la polizia responsabile delle violenze. Fu un evento mediatico molto seguito dall’opinione pubblica americana, al punto da rendere celebri gli imputati. Si risolse con una condanna poi annullata in appello. Il giudice, Julius Hoffmann, venne definito parziale e inaffidabile.

Un film a lungo atteso che esce proprio in questo periodo, mentre gli USA sono attraversati dalle manifestazioni dei “Black Lives Matter”.

La linea narrativa principale riguarda lo svolgimento del processo, mentre gli avvenimenti di Chicago sono ricostruiti con dei flashback, che comprendono immagini girate e di repertorio. Avvocati, giudici e testimoni intendono comprendere quel che è accaduto a Chicago nell’aula processuale. Come in una stanza d’analisi, la rappresentazione del passato emerge dal conflitto. E come nella cornice analitica, si oppongono alla ricostruzione la censura (il giudice si rifiuta di far deporre un teste fondamentale) e gli interessi personali (il processo, probabilmente voluto da Nixon, mirava a delegittimare i movimenti del Sessantotto americano). Qui interviene un elemento chiave: un uomo che si ostina a cercare la verità storica, al di là di un sistema che vorrebbe stravolgerla. È l’avvocato dei sette attivisti, William Kunstler, il quale non crede all’esistenza di processi politici, dunque accetta le regole del gioco della Giustizia americana, anche se poi dovrà ricredersi. Kunstler intende dimostrare l’innocenza dei suoi clienti, animato da una fede incrollabile nella possibilità di stabilire la verità tramite la dinamica processuale. Kunstler ricorda Georges Picquart, l’ufficiale che dimostrò l’innocenza dell’ufficiale ebreo Alfred Dreyfus.

Come in una seduta psicoanalitica di gruppo, il film sviluppa le varie possibili interpretazioni degli eventi di Chicago, cercando di comporre i frammenti e le tensioni al fine di approdare a una narrazione storica condivisibile. Il problema della ricostruzione della realtà storica, così importante almeno nel primo pensiero freudiano, si snoda attraverso dialoghi brillanti e personaggi ben definiti. Il colpo di scena avviene quando viene scoperta una registrazione nella quale uno degli imputati, Tom Hayden, ritenuto un moderato, pronuncia una frase di apparente invito alla sommossa: “Se il sangue deve scorrere, allora che scorra per tutta la città”. La stessa frase però può essere interpretata in senso opposto: un altro imputato, Abbie Hoffman, suggerisce che il “sangue” significa “il nostro sangue”, ovvero “Se devono picchiarci, che tutti lo vedano”: tutto il mondo dovrà vedere il sacrificio degli attivisti per comprendere le storture della società americana. Un’interpretazione coerente con quanto è successo e con il richiamo scandito dai manifestanti: “Tutto il mondo ci guarda”. Il problema della verità storica è anche un problema di linguaggio e interpretazione.

 

Un altro tema che lega questo film alla psicoanalisi è la lotta contro la generazione precedente, quella dei padri. L’imputato Abbie Hoffman ha lo stesso cognome del giudice, Julius Hoffman, e non esita a chiamarlo ironicamente “padre illegittimo”. Un epiteto che acquista senso quando, chiamato a deporre, Abbie deve rispondere alla domanda provocatoria dell’accusa: “Lei crede nella democrazia?”; egli pronuncerà una delle frasi fondamentali del film: “Credo che le istituzioni della nostra democrazia siano straordinarie, ma che in questo momento siano in mano a persone orribili”. Vale a dire: noi manifestanti non vogliamo protestare in generale contro i padri, ma contro questi padri, che si macchiano di sangue nell’altra scena, non visibile, della guerra in Vietnam. Abbie Hoffman e Jerry Rubin effettuano anche una parodia del padre/giudice, presentandosi in tribunale vestiti in toga nera. Nell’opera freudiana il cognome Hoffman rimanda all’autore dell’Uomo della sabbia analizzato nel saggio di Freud sul Perturbante (Freud, 1919), ma questa è solo una coincidenza. 

Non tutti gli imputati possono essere considerati semplicemente degli oppositori della generazione precedente. Nel processo era presente un ottavo accusato, poi scagionato: Bobby Seale, uno dei leader del movimento delle Pantere Nere, estraneo ai fatti di Chicago. Dopo aver saputo che la polizia ha assassinato un leader delle Pantere Nere, Fred Hampton, Seale si rivolge a Tom Hayden, sostenendo che le loro battaglie non sono le stesse. Egli afferma: “Avete tutti lo stesso padre, vero? La tua vita è un vaffanculo a tuo padre, vero? Riesci a capire quanto è diverso da un cappio appeso a un albero?”. La contrapposizione tra nuova e vecchia generazione è un’ottica riduttiva per comprendere la lotta dei neri americani: l’aggressività prodotta dai conflitti sociali è proiettata su di loro, che vengono conseguentemente discriminati e fatti oggetto di paranoie e violenze da parte della polizia.

Ci sono anche dei “padri buoni” in questa storia: uomini che svolgono lavori importanti, ben inseriti nella società ed eticamente irreprensibili, come l’ex procuratore Ramsey Clark, interpretato con uno stile asciutto ed energico da Michael Keaton, e il già citato avvocato William Kunstler. Kunstler, nell’interpretazione dello straordinario Mark Rylance, seppure estremamente energico nell’opporsi ai soprusi della corte, appare un uomo coartato, come se non avesse un suo legittimo spazio nel processo. Il suo sguardo è obliquo ma fermo, quasi a riflettere la propria estraneità rispetto alla corruzione perversa del giudice e degli altri uomini di legge presenti in aula. Proprio Clark non avrà spazio nel processo: la sua deposizione sarà ascoltata solo dal giudice che lo censurerà, negandogli il diritto di deporre di fronte alla giuria.

Il femminile ha pochissimo spazio in questo film: le donne sono poche e oggetto di discriminazione. Un’agente infiltrata seduce un manifestante per carpire informazioni. I leader sono uomini, anche i movimenti di protesta ricalcano il maschilismo della società che combattono. 

Sorkin è un eccellente sceneggiatore di drammi giudiziari. In quest’opera egli fonde il suo genere elettivo col film storico. La regia si attiene a un registro sobrio, con linee di ripresa prevedibili, limitandosi al contrasto tra le immagini scure e statiche dell’aula processuale, a indicarne il conservatorismo, e il dinamismo degli scontri. La fotografia stile vintage, utilizzata spesso per questo genere di film, non sembra funzionare, poiché sottrae autenticità alla narrazione. Se la sceneggiatura tende a semplificare le posizioni politiche, ma senza arrivare al manicheismo, i dialoghi tra i personaggi restituiscono una notevole complessità psicologica, ricorrendo spesso all’umorismo.

Sorkin, regista e sceneggiatore, sembra suggerire che anche colui che professa grandi valori non è immune da difetti personali e che il padre buono, come Kunstler, è colui che cambia idea: i processi politici esistono.

 

Riferimenti bibliografici

 

Freud, S. (1919), Il Perturbante, O.S.F. 9, Torino, Boringhieri, 1992.

 

Ottobre 2020

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