Michael Haneke , Austria, 2009
Commento di Rossella Valdrè
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"….Le relazioni tra gli adulti e tra questi e i bambini sono quanto di più algido e privo di un senso di umanità vera si possa concepire. Nei personaggi del Medico, del Pastore e del Barone si concretizzano tre modi di esercitare l’autorità e il sopruso (in particolare verso le donne) che forniscono un modello di amare/odiare per i più piccoli, i quali finiscono per introiettare la violenza che domina la società, per quanto apparentemente celata dalle convenzioni. Il nastro bianco che il Pastore impone ai figli piu’ grandi dovrebbe simboleggiare la necessità, per loro, di raggiungere una purezza che dovrebbe coincidere con l’acquisita maturità. Di fatto, in quel piccolo mondo in cui solo l’istitutore e la sua timida e inconsapevole innamorata sembrano credere nella positività della vita, il disprezzo domina.
Non passeranno molti anni e quei nastri bianchi si trasformeranno in stelle di Davide. Ad appuntarli sul petto di nuove vittime saranno proprio quegli ex bambini".
Non e’ uno psicoanalista, ma credo che nelle parole del critico cinematografico Giancarlo Zappoli ci sia tutta l’intensa e drammatica verità del film. Direi anzi che non la si poteva esprimere meglio.
L’austriaco Michael Haneke (a parer mio, insieme ai fratelli Dardenne, oggi tra i piu’ incisivi e interessanti cineasti europei) torna a narrare del Male, di quel Male che diventerà il Male assoluto, e che nessuno sa raccontare (anzi: sa rappresentare) come gli autori di lingua tedesca o nordeuropea. Ne Il nostro bianco (Palma d’Oro a Cannes, 2009) si intrecciano infatti, in un tessuto linguistico colto e abilissimo, riferimenti bergmaniani (il bianco e nero de Il posto delle fragole, i bambini infelici di Fanny e Alexandre), echi delle opere di Lars Von Tiers, come Dogville, metafora senza spazio ne’ tempo del sopruso e del sadismo, e persino evocazioni alla recente e fortunata trilogia dello svedese Laarson, dove tutta la vicenda delittuosa inizia con la sparizione di una ragazzina da un villaggio apparentemente pacifico e sereno. O perlomeno, tutte queste sollecitazioni e molte altre ha suscitato in me.
Ma tuttavia il film non si risolve e non si appiattisce in nessuna di queste, confermandosi Haneke un regista assolutamente originale e, a me pare, decisamente coraggioso. Il nastro bianco è infatti uno di quei film che il pubblico può trovare "difficili": colloca la vicenda in un villaggio tedesco alle soglie della prima guerra mondiale, 1913; i personaggi sono figure abissalmente lontane dalla nostra moderna sensibilità, ne sono anzi l’opposto, rigorose e superegoiche da sembrare il medioevo rispetto al nostro attuale mondo senza padri; i piani di lettura possono essere molteplici, metaforico ma anche realistico e persino giallistico. Soprattutto, il dolore e’ muto ma forte lungo tutta la storia. Senza che si veda una goccia di sangue, tuttavia non si vede altro che violenza. Si è sempre in attesa di qualcosa di orrendo che succederà, e non si sa cos’e’. Siamo calati . come in Funny games, in un’attesa del Male.
Come ha scritto Zappoli, è la violenza dell’adulto sul bambino, dell’uomo sulla donna, del ricco sul povero, dell’uno sull’altro sempre, incessantemente, in quanto tale.
Rispetto alla totale gratuità del Male in Funny games (Haneke, 2008), qui la violenza è sì immersa in una sorta di banalità folle del quotidiano, ma affonda le sue radici in un protestantesimo crudele e ottuso che condanna gli uomini ad espiare la Colpa di continuo, anche senza aver commesso nulla di rilevante, potremmo dire a prescindere: occorre espiare lo stesso fatto di essere vivi, di essere nati, di essere soggetti desideranti (all’adolescente che si masturba vengono legati i polsi, alla governante innamorata viene riservato disprezzo e violenza sul figlio ritardato).
Si narra di un anno, alle soglie del 1913, in un villaggio abitato da una piccola comunità dove ciascuno ha il suo preciso ruolo, dal quale non può sottrarsi. Tutto e’ apparentemente tranquillo e procede secondo i ritmi della natura, ma cominciano ad accadere strani avvenimenti. A raccontarli e’ l’io narrante dell’ormai anziano maestro di scuola, unico, insieme all’inconsapevole fidanzatina, a rappresentare una voce diversa, distinta, e perciò capace di narrare. Nell’apparente tranquillità di questa vita agreste, un giorno il Dottore ha uno strano incidente da cavallo, che in seguito si scopre essere stato procurato da qualcuno appositamente. In seguito verrà seviziato e sodomizzato il bambino del Barone e della baronessa, padroni del villaggio, ed in seguito ancora la stessa sorte toccherà al piccolo figlio ritardato della governate del Dottore, la brutta e infelice signora Wagner. Sembra che un mostro si aggiri per il quieto villaggio, ma non si riesce a capire chi sia. Il sogno (premonitore?) di una delle ragazzine sembra dare una spiegazione: sono gli stessi bambini i sadici violentatori. Un gruppo di tristi ragazzini biondi, dai volti seri ed eternamente puniti, sottomessi all’obbedienza cieca verso i padri (ogni padre, e il Pastore primo fra tutti), testimoni della violenza quotidiana perpetrata dell’uno sull’altro, un gruppo di ragazzini si aggira angosciato per le scale nelle notti insonni, per i campi, bussa timidamente alle porte, viene picchiato con la verga ad ogni minima trasgressione.
Ogni nucleo familiare ha le sue regole, i suoi carnefici e le sue vittime, all’interno di uno schema che non si puo’ alterare. Ciascun nucleo ha il suo posto nella vita del villaggio, che solo la guerra spazzerà via. Sono dunque i bambini gli autori dei delitti e delle sevizie? sono loro i cattivi, gli invidiosi, i perversi?
L’introiezione del Male a cui Zappoli si riferisce, si insedia dentro di loro come qualcosa di piu’ denso, potremmo dire, di piu’ forte e indifferenziato rispetto alle normali introiezioni che ogni bambino incontra nel corso dello sviluppo. Credo si possa qui richiamare il concetto di quel "nucleo agglutinato", di cui parla lo psicoanalista argentino Jose’ Bleger (in: Simbiosi ed ambiguità, 1970), una sorta di ancestrale depositato di memorie traumatiche inconscie che in seguito, inevitabilmente, il soggetto sarà costretto a ripetere e a perpetrare agendolo a sua volta sull’Altro. Questo Altro, oggetto della proiezione, diventerà il depositario di tutto il brutto, il negativo, lo sporco, il disgustoso e il terrifico che il soggetto vorrà liberare da sè Questo Altro saranno gli ebrei nella stessa Germania di vent’anni dopo; ma il discorso vale per ogni persecuzione, per ogni genocidio, ed e’ alla base del razzismo, dell’omofobia e di ogni forma di persecuzione a danno di un gruppo etnico o sociale, a danno di chiunque si differenzi.
Sarebbe tuttavia forse semplicistico, o riduzionistico, affermare che coloro che sono stati oggetto di trauma, a loro volta ripeteranno e perpetreranno il trauma su un Altro ritenuto debole e nel quale viene collocata la parte del Sé ripudiata, siano essi ebrei, donne, negri, gay, eccetera. E’ vero, ma non e’ tutto. Haneke vuole estendere il dato psicologico ad un preciso contesto storico-ambientale: tutto questo e’ successo lì, in quei luoghi.
Non altrove. L’humus, il terreno di coltura di quella che diventerà la tragedia del Novecento non nasce a caso, non in altri paesaggi (non nel Mediterraneo, dove scappa la Baronessa, ad esempio), ma proprio li’, in quelle campagne che un’altra voce austriaca, Elfriede Jelinek (premio Nobel per la letteratura 2004) ha mirabilmente descritto.
Da quei piccoli villaggi incestuosi e chiusi, governati dalla cultura della colpa persecutoria che vede nel protestantesimo bigotto il suo riferimento dottrinale e punitivo, è nata e si è formata – è la tesi del film di Haneke – non un singolo o uno sparuto gruppo di individui, ma un corpo sociale, un gruppo umano portatore di odio e fautore di odio, invidia e ignoranza, che sostituirà il nastro bianco al braccio con la stessa di Davide. Ciò che ho subito, un giorno lo ripeterò e lo farò subire a mia volta.
I prodromi del nazismo, la nascita del Male, o si se vuole i germi dell’odio di massa come fatto storico-psicologico dai connotati ben precisi, sono il tema di questo intenso, amaro, sincero e lucidissimo film, in cui alla fine, se non ci fosse stata la Guerra, tutto sarebbe immutabilmente tornato come prima, come sempre. Nessun criminale, se non nel sogno di una delle bambine, e’ stato infine identificato.
"….Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi non erano ne’ perversi ne’ sadici, bensi’ erano e sono tuttora terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici questa normalita’ e’ piu’ spaventosa di tutte le atrocita’ messe insieme, poiche’ implica (…) che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generi humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male."
(H. Arendt, La banalita’ del male)
(pubblicata anche in http/www.psychiatryonline.it)