Cultura e Società

Il Grande Capo

6/05/09

 (2006) di Lars von Trie

Alberto Angelini

"La dismisura genera il tiranno" si legge in Sofocle. Il confine che separa il legittimo re dal tyrannos è sottile e, a volte, quasi impercettibile. Edipo, assurto al trono di Tebe, dopo aver superato l’ordalia della Sfinge, si trasforma, da salvatore, sovrano sollecito del benessere dei suoi sudditi, nella causa della punizione divina, la terribile pestilenza, il miasma che ammorba la città. Ciò avviene inconsapevolmente, senza segnali visibili, quindi contrastabili. Edipo, suo malgrado determina la rovina dei suoi sudditi perché il potere, autonomamente, prevede questa possibilità ed è comunque esposto, in senso mitologico, alla possibilità di determinare la catastrofe della tirannide. Al di là del mito, ciò che fa emergere il tiranno dal benevolo regnante è il venir meno di una "misura" che indirizzi l’assolutezza del potere verso "il bene dei sudditi"; che mantenga un potere non ab-soluto, sciolto, ma anzi vincolato all’obiettivo di giovare alla comunità. Altrimenti il re diviene un despota e il potere un dominio.

Per trasformare queste e altre serie riflessioni provenienti dal materiale della tragedia nell’elemento di una paradossale commedia capace di sfociare in scene farsesche, occorreva l’arte di un valido regista come Lars Von Trier. Egli abbandona parzialmente il suo tradizionale pessimismo e sospende il film "Wasington", senza acca, l’ultimo della sua trilogia americana, dopo "Dogville" e "Manderlay", per offrirci una commedia gradevolmente demenziale e barocca. Sono passati anni dal manifesto "Dogma 95", di cui Von Trier fu promotore, che rivendicava l’esigenza di superare i rigidi codici del linguaggio filmico. Tuttavia egli non rinuncia mai al suo anticonformismo drammaturgico e tecnico.

Ne "il Grande Capo", fin dall’inizio, le intenzioni sono dette e la finzione svelata. Per una volta il regista non si nasconde, proprio mentre narra quanto sia importante, per il potere, non farsi riconoscere. Nel riflesso di un vetro del palazzo dove si svolgerà tutta l’azione si specchia una cinepresa (citazione da Vertov degli anni ’20), mentre, evocando una certa drammaturgia favolistica, l’Io dell’autore diviene il narratore, la voce fuori campo il deus ex, o meglio extra machina, che ci mette a conoscenza delle sue intenzioni. Ci comunica che stiamo guardando una commedia, ci spiega, bontà sua, come dobbiamo leggerla, valutarla e di quali emozioni è opportuno far tesoro. Questo tipo di irriverenza nei confronti dello spettatore e di alcuni codici del cinema determina una espressività ancor più strutturata e complessa, anche se tecnicamente problematica. Comunque, il risultato è una commedia gradevolmente demenziale, la cui organizzazione narrativa è garantita proprio dalle regole esposte dall’Io narrante. E noi siamo disposti a credergli, perché sembra che tali regole vengano rispettate: dalla pretesa che una commedia non debba far riflettere, al commento finale, a mò di epitaffio: "Chi è venuto qui, aspettandosi questo, se l’è meritato". E’ un esercizio che ha le sue radici in una tradizione barocca, assai lontana dalla cultura danese, quindi più nuova in quel contesto che in ambito latino, dove i Cervantes e i Pirandello hanno fin troppo svelato, nel corso dei secoli, finzioni e controfinzioni nella messa in scena del mondo. Sono consapevoli finzioni anche i propositi modesti dichiarati dalla voce narrante. L’opera offre molto di più di quanto si prefigge. La consapevolezza di ciò trapela da una frase che il regista si lascia sfuggire: "Ogni buona commedia non è mai innocua". Similmente, sarebbe un atteggiamento superficiale ritenere più facile la messa in scena, anche cinematografica, di una commedia, per sue intrinseche caratteristiche di "leggerezza". La materia narrativa del film è vivace; la messa in scena è originale e fin troppo ricca di sperimentazioni; la forma appartiene alla commedia, la sostanza possiede spunti tragici.

Il fondatore e proprietario di una azienda danese di informatica, tale Ravn, psicologicamente insicuro e bisognoso di approvazione, da anni, per essere ben visto dagli impiegati, attribuisce le decisioni più sgradite a un immaginario "Grande Capo", residente negli USA. E’ un soggetto invisibile e impopolare, ma mentalmente immanente nei dipendenti, ciascuno dei quali ha interiorizzato con il capo un virtuale rapporto personale, a seguito di subdole e rare e-mail che lo stesso fondatore, nel corso degli anni, ha spedito fingendosi il capo medesimo.

Il personaggio Ravn è un re egoista e vile, che coltiva il seme della tirannia senza saper regnare ed è  interpretato da Von Trier, un regista che, invece, sa dirigere. Quest’ultimo anzi, in questo film, è ossessionato dal desiderio di controllare la camera e, contemporaneamente, con ambivalenza, dalla voglia di trasgredire i codici linguistici cinematografici, a costo di forzare i processi mentali e fisici della percezione visiva.

Accade che Ravn voglia vendere l’azienda, addirittura all’insaputa dei dipendenti e con l’intenzione di lasciarli sul lastrico. Il suo "potere occulto" assoluto lo ha assolutamente corrotto e, in forma scissa, organizza la rovina dei suoi colleghi di lavoro, continuando a ricevere dai medesimi, ignari, le manifestazioni di affetto e stima di cui ha bisogno. Per realizzare la vendita, però, è necessaria la presenza fisica di un amministratore delegato che firmi: il Grande Capo. L’unica soluzione è assoldare un attore che lo impersoni.

Compare Friedrck, farsa vivente dell’attore disoccupato e pieno di sé, alla disperata ricerca di un pubblico disposto ad ascoltare il suo "Monologo di uno spazzacamino in una città senza camini", per recitare il quale, nei momenti meno opportuni, tende a sporcarsi il viso di fuliggine. Come i dipendenti dell’azienda , con le loro reciproche relazioni affettive, evocano ridicoli psicodrammi e assurde tecniche di psicoterapia gruppale, così Friedrick è la caricatura dell’attore narciso e infantile, immerso in fantasie d’arte e successo che potrebbero redimerlo dalla sua inconsistente situazione. E’ l’ennesima presa in giro del "Gioco della recitazione" e del metodo Stanislavskij, assieme all’incomprensibile e intangibile mondo informatico e al rapporto, a quanto pare, particolarmente aspro che gli acquirenti dell’azienda, islandesi, hanno con i danesi. Il personaggio di Friedrick è il più riuscito e, analogamente a Ravn, sembra qualcosa che non è. Come Narciso non ha la forza di perseguire la ricerca dell’autenticità e gioisce per la vittoria del riflesso sulla "vera" realtà, con la conseguenza di un epilogo tragico. Sarà l’infantile narcisismo di Friedrick, che difende il suo Eden fittizio da spazzacamino senza camini a danno di tutti, a causare la vendita dell’azienda. Un avvenimento vessatorio e castrante che, oltretutto, renderà vano ogni tardivo ripensamento e senso di colpa dell’occulto padre-padrone Ravn.

Una farsa dal finale infausto; ma la materia umana è sempre la medesima. In questo caso, inoltre, al centro narrativo sono collocati sia i personaggi, sia la narrazione stessa, nella voce del regista. Egli si compiace così di ricordarci, in forma anche troppo classica per un innovatore, come tutto è finzione e che si può acconsentire ad essa solo tenendola a bada con una superiore consapevolezza.

Escludendo pretese pedagogiche, anche la tecnica di ripresa cinematografica può essere una riflessione estetica. Von Trier, in virtù di una proposta concettuale, aveva girato i suoi film sostanzialmente con la camera a mano proponendo, in contesti di ottimo valore drammaturgico, immagini tremolanti e scompensate, estranee alla psicofisiologia dello spettatore in sala, con l’intento di superare i tradizionali "codici cinematografici". E’ questa moda fastidiosa, fortunatamente, ad essere superata ne "Il Grande Capo". Finalmente le scene sono girate con la macchina fissa, eliminando i viscerali tremolii propugnati dal manifesto "Dogma 95". Ma Von Trier, anche a scapito dell’equilibrio percettivo e tecnico, proprio non ce la fa ad evitare le provocazioni ideologiche. Le riprese del film sono state realizzate con il cosiddetto sistema Automavision, dove un computer, al posto del direttore della fotografia, decide, in base a un programma predefinito, il taglio e la luce delle inquadrature. Come risultato, una commedia vivace e divertente viene raccontata con una cinematografia brusca e disallineata, con forti sbalzi di luce,  contestando ideologicamente la tradizionale fluidità del girato; magari consueta, ma conforme ai meccanismi della percezione cinematografica. Come accade spesso, in ambito ideologico, si scambia la natura con la cultura. Ripensando, in grande, alla cosiddetta sconfitta delle ideologie, verificatasi nella seconda metà del secolo scorso, faticare, in piccolo, nella visione di un bel film, per motivi ideologici, non è detto sia un progresso.   

Pubblicato anche sulla rivista Eidos, n.8/2007

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