Cultura e Società

“il cielo brucia” di C. Petzold. Recensione di S. Monetti

4/11/24
"il cielo brucia" di C. Petzold. Recensione di S. Monetti

Parole chiave: Psicoanalisi, pulsionalità, meccanismi di difesa, ambivalenza, mito

Autore: Stefano Monetti

Titolo: il cielo brucia

Dati: regia di Christian Petzold, Germania 2023, 102’

Genere: commedia, drammatico

È disponibile su RaiPlay l’ultimo film di Petzold, il secondo di una trilogia dopo Undine – Un amore per sempre del 2020. Una continuità sancita dalla presenza della stessa protagonista: l’attrice Paula Beer.

Due ragazzi berlinesi, lo scrittore Leon e il fotografo Felix, vanno in vacanza sul Baltico in una casa che appartiene alla famiglia di Felix. Qui incontreranno ospiti imprevisti: Nadja e il suo compagno Devid. La convivenza iniziale pare difficile, anche per la scarsa attitudine alla socialità di Leon, che rifiuta qualsiasi attività propostagli con la scusa di dover scrivere il suo libro.

Leon è uno scrittore in crisi, depresso e ritirato dalla vita, che giustifica la propria inettitudine con un narcisismo intellettuale del quale egli stesso riconosce l’inconsistenza. Di notte lui e Felix, come due bambini di fronte a una scena primaria, ascoltano i rumori di Nadja e Devid che fanno sesso. Leon è innervosito da tutto ciò che riguarda l’espressione dei sentimenti, impaurito dall’incapacità di contenerli. La situazione muta rapidamente: Felix si fidanza con Devid e Leon la notte si trova ad ascoltare i due ragazzi ansimare nella stanza accanto, mentre è in compagnia di Nadja, dalla quale sfugge perché non accetta di esserne innamorato. Nadja rappresenta una femminilità liberamente vissuta che acquista per Leon tratti inquietanti, rispecchiando sentimenti amorosi che lo stesso Leon non intende pensare.

Il film inizia à la Rohmer, con una felice spontaneità nei dialoghi, frutto di una precisa scrittura che ben definisce i personaggi. A un certo punto però, come in altri film di Petzold, interviene un elemento di forte valore simbolico che cambia il corso delle cose: se in Undine era l’acqua, qui si tratta del fuoco degli incendi che devastano le zone circostanti la casa. Le immagini del film cominciano ad animarsi di un’energia che sfugge alla rappresentazione, sono attraversate da un senso di inquietudine ed estraneità rispetto alla realtà finora stabilita. Ciò fa pensare ad autori come David Lynch o al Tarkovskij di Stalker (1977),  ovvero a film in cui le sequenze si nutrono di un’energia che potremmo definire pulsionale. Petzold introduce lo spettatore in una specie di visione soggettiva, in quanto fa vedere le cose dal punto di vista di Leon, carico di angoscia.

Il fuoco potrebbe rappresentare classicamente la forza bruciante del sentimento amoroso dal quale Leon si ritrae. Non a caso Nadja cita un passo dal Romancero di Heinrich Heine: “Il mio nome è Mohamet, vengo dallo Yemen, e la mia tribù è quella degli Asra, coloro che muoiono quando amano”. È Leon a temere di morire d’amore, come nel destino degli Asra, e a sentirsi già morto nella sua rinuncia alla vita. La lotta tra amore e morte è un tema ricorrente nell’opera di Petzold, il motore dell’ambivalenza nella quale si muovono i protagonisti dei suoi film, divisi tra la percezione del proprio desiderio e l’incapacità di sostenerlo. Esemplare a questo proposito è la citazione nel film degli amanti di Pompei, probabilmente sorpresi dal loro destino mortale durante un rapporto sessuale nel quale sono stati immortalati dall’eruzione del Vesuvio. 

Da questo punto di vista Petzold traduce a suo modo la lezione di un maestro del Nuovo cinema tedesco, Rainer Werner Fassbinder, il quale mette in scena nei suoi film l’amore come “strumento di oppressione sociale” (Fassbinder, 1988). Poteremmo dire che in Petzold l’amore diviene strumento di “oppressione individuale”, pensando all’etimologia della parola angoscia: dal latino “angustus”, stretto.

Seguendo le prime ipotesi di Freud sulla nevrosi, potremmo ipotizzare che l’angoscia di Leon si origini da un’incapacità di simbolizzazione del proprio desiderio sessuale: egli non riesce ad accettare il proprio desiderio e pertanto esso rimane privo di sufficienti nessi rappresentativi. La tensione non legata diviene angoscia (Freud, 1892-7).

L’innesto di un elemento magico, mitico o letterario, come il fuoco o la citazione di Heine, servono a Petzold per scardinare le difese dei protagonisti rispetto alle loro emozioni. Romanticamente egli ci suggerisce che la finzione può fornire lo slancio per vivere pienamente la propria vita, nei rischi e nelle contraddizioni esaltati nella filosofia di Friedrich Nietzsche. Allora il riferimento del titolo originale: “Roter Himmel”, letteralmente “cielo rosso”, potrebbe essere il film Deserto rosso (di Michelangelo Antonioni, 1964) nel quale viene rappresentata l’incapacità dei protagonisti di vivere le proprie emozioni. Il rosso delle emozioni incontenibili è pericoloso come quello degli incendi.  Monica Vitti, protagonista di Deserto rosso, afferma che “c’è qualcosa di terribile nella realtà”.

Bibliografia

Fassbinder R.W. (1998) I film liberano la testa, Milano, Ubulibri, 1988

Freud, S. (1892-97). Minute teoriche per Wilhelm Fliess, Opere, vol. II, Bollati Boringhieri Heine H. (1851) Romancero, Napoli, Ricciardi, 1951

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