Alfonso Cuaròn, USA-GB, 2013, 92 min.
Trailer:
Commento di Maria Teresa Palladino
Sono andata a vedere Gravity per caso, non ero particolarmente interessata, pensando fosse un tipico film d’avventura americano, con vittoria finale dei ‘buoni’ dopo peripezie varie.
Ho invece visto un film profondo, complesso, molto godibile e coinvolgente anche sul piano sensoriale perché, facendo del 3D un uso intelligente, ti fa vivere dentro la storia.
Si può parlare del film secondo varie chiavi di lettura ed io ho scelto quella della metafora del viaggio analitico.
La scena si apre in una stazione spaziale che potrebbe farci pensare a quel luogo, sospeso dalla realtà, che è la stanza di analisi. Arrivano delle voci dalla terra, che vorrebbero dare indicazioni su come procedere, ma lassù c’è qualcosa che si è rotto ed è la Dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) che si sta adoperando con tenacia per cercare di riparare il danno.
L’impresa ha qualcosa a che fare con il ‘vedere’, poiché bisogna aggiustare un telescopio e, dunque, sicuramente ha a che fare con l’essenza di un processo analitico e, più in generale, con i processi di elaborazione psichica profonda. La riparazione del danno di Ryan appare non così semplice da portare a termine, anche perché la protagonista è alla sua prima missione nello spazio. Per fortuna all’interno della stazione si trova, tra gli altri, un astronauta esperto che è, invece, alla sua ultima missione. Si tratta di Matt Kovalsky (George Clooney) che, anche se un po’ noioso e ripetitivo, come a volte noi analisti possiamo essere, si offre di aiutarla. Cominciano così a lavorare insieme, con Matt che cerca non solo di aiutare Ryan, ma anche di sapere qualcosa in più di questa giovane donna, di conoscerla mentre è così concentrata nel portare a termine il suo progetto.
Mentre i tentativi di riparazione procedono, ecco che un cambiamento catastrofico si profila all’orizzonte. Nel film prende la forma di detriti cosmici, derivati da una manovra sbagliata di altri, imprevedibile, finiti nella traiettoria della stazione spaziale.
Il fenomeno ha le caratteristiche del trauma, o dell’irruzione del suo ricordo, come a volte succede anche in analisi. Arriva improvviso e inevitabile, travolge tutto e impedisce di pensare, perché la sua forza e la sua potenza sono enormi. È una forza che impone, per salvarsi, per non essere disintegrati, di staccarsi dalla base, quindi delle proprie conosciute certezze, come consiglia l’astronauta esperto. È una catastrofe che miete vittime intorno e che precipita la protagonista in un buco nero dove perde, inizialmente, le coordinate spaziali.
È molto ben rappresentata, per quanto riguarda la Dottoressa, la perdita completa di riferimenti, il panico dell’iniziale sentirsi sola e persa nello spazio, che sono le caratteristiche del trauma. Per fortuna un altro sopravvissuto all’evento è proprio il suo esperto compagno di viaggio Matt, che la aiuta a orientarsi e, legandosi a lei con un cavo, le propone un viaggio verso una stazione non vicina, che appare all’orizzonte e che non è nemmeno sicuro che potranno davvero raggiungere.
Come metafora del viaggio analitico con le sue incertezze di tempo e di raggiungimento di obiettivi mi pare perfetta.
I due partono legati ed è commovente lo sforzo del più esperto di aiutare la giovane compagna di viaggio in un lavoro introspettivo, durante il quale le sarà possibile raccontare la perdita traumatica della figlia, che le aveva fatto perdere la voglia di vivere. È commovente il suo tentativo di riportarla piano piano in contatto con le abitudini elementari della sua vita, di legarla di nuovo al suo mondo! Ma ecco di nuovo l’irrompere del trauma, che si ripresenta periodicamente in una coazione a ripetere sempre più pericolosa, perché la stazione spaziale è già danneggiata.
I detriti spaziali sembrano oggetti bizzarri che investono Ryan e rendono più grave il trauma originario; inoltre, quel ‘cordone ombelicale’ che la univa a Matt si spezza e non è più possibile proseguire attaccati e sopravvivere entrambi. Bisogna separarsi e il legame si deve trasformare, come succede in analisi. È necessario proseguire da soli, anche se avendo in mente le indicazioni del compagno di viaggio ormai lontano. A questo punto le sequenze si fanno molto spettacolari, mentre seguono la protagonista nei suoi tentativi di risolvere la situazione cercando di rimettersi in contatto con la base o con Matt.
L’impresa è difficile, quasi impossibile, perché ogni volta che il trauma, sotto forma di questi oggetti bizzarri non mentalizzati, si ripresenta, i danni sono sempre più imponenti.
E possiamo qui riconoscere certi momenti di disperazione che in ogni analisi si attraversano quando le cose sembrano immutabili e la coazione a ripetere sembra ‘fare da padrona’. La protagonista non riesce a ripristinare il funzionamento della stazione spaziale, che pure ha raggiunto, e ha la tentazione di cedere e abbandonarsi alla morte, per riunirsi alla sua bambina. Difficile rappresentare con altrettanta efficacia la lotta di chi è alle prese con l’elaborazione di un lutto, tra il desiderio di annientamento di sé, per unirsi alla persona morta, e il desiderio di lasciare andare chi non c’è più per riprendere a vivere. A questo punto Matt, sotto forma di oggetto interno, rappresentato come allucinazione per esigenze cinematografiche (ma con grande efficacia e anche con sottile umorismo) ricompare a sostenere la lotta per la vita e a mettere Ryan in contatto con le sue risorse vitali interne. È bella la scena in cui le dice che può scegliere se vivere o morire e le dà anche indicazioni sul fatto che la manovra per ripartire è la stessa che si deve fare per separarsi dalla ‘navetta madre’. Il lutto ora sembra essere elaborabile, la protagonista sceglie di provare a rimanere viva. Saluta simbolicamente la sua bambina morta, che può ora lasciare andare, per tentare di tornare sulla terra. Le scene finali sono appassionanti e cinematograficamente riuscite. La nostra Dottoressa recupera energie e conoscenze che non credeva di avere e riesce a riparare la navetta in modo da sentire e farsi sentire da quelli laggiù sulla terra. Nonostante siano in arrivo i soccorsi sarà necessario andare molto a fondo, giù nei profondi abissi dell’anima, svestirsi di tutti gli scafandri, prima di potere riemergere e mettere finalmente di nuovo i piedi sulla terra per riprendere a vivere.
Un gran bel film.
Novembre 2013.