Sebastián Lelio, Cile-Spagna, 2013, 94 min.
Commento di Rossella Valdrè
“Quale autore al mondo potrà insegnarvi la bellezza come uno sguardo di donna?”
(W.Shakespeare)
Gloria è una donna normale. Non bellissima, non brutta, di mezza età, un lavoro qualunque non al centro della sua esistenza, separata da anni, due figli grandi non privi delle loro problematiche, un gatto che non le piace, ma torna instancabilmente sempre da lei.
Gloria è semplice, ma intelligente. Non si cala in particolare nei discorsi dell’amico sociologo, ma osserva e “ascolta” il mondo con un’intensità non scontata in quest’età: il suo sguardo è attento, penetrante, a tratti avido di sensazioni.
Gloria è una donna essenzialmente corporea. Di non molte parole, sono il corpo maturo, lo sguardo vivo e segnato insieme con accompagnarla nelle strade, nei gesti, nelle danze, negli svincoli della vita.
Gloria è in conflitto con la solitudine. Ne vorrebbe sfuggire, con solitarie serate in disco-bar che finiscono, tutte uguali, in una notte di sesso anonimo con chi facilmente la avvicina; ma anche se ne sente in qualche modo protetta, spaventata altresì del possibile dolore delle relazioni. C’è già passata, in quel dolore lì, come tanti, come tutti; lo intuiamo dalla faticosa serata “familiare”, che si trasforma in vera e propria pena e costituisce la svolta drammatica del film, serata di quelle in cui tutti si sforzano di incontrarsi fintamente pacificati (gli attuali, gli ex, i figli…), ma le ferite sono lì, pronte a riaprirsi…
Gloria ama ballare. Con il ballo si fa compagnia in una sorta di accogliente, calda auto-empatia, nel ballo cerca un contatto con un possibile ‘altro’, scioglie e muove quel corpo maturo, sì, ma ancora soggetto di un desiderio vivo, a volte urgente, a volte consolatorio.
Gloria governa la tristezza come può. Non disdegna ogni tanto uno spinello o qualche bicchiere di troppo, ma il tutto resta contenuto, sa dove fermarsi, fino alla notte in cui Rodolfo la lascia sola nell’hotel che avrebbe dovuto rinsaldare il loro faticoso ma promettente incontro. Con Rodolfo, il fragile equilibrio delle serate solitarie al bar si spezza: sembra nascere un vero incontro, una possibilità per entrambi. Hanno molto in comune, età, storie passate, ambivalenze, ma soprattutto quella che rappresenta la tematica di fondo del film: il legame col passato, la difficoltà di metterlo via, archiviarlo senza difensivamente negarlo, “lasciarlo andare” come il buon lutto richiede con gli oggetti perduti. Cellulari che squillano – per Rodolfo – l’unico doloroso episodio della cena – per Gloria – rivelano invece la perenne presenza, l’incombente attualità degli oggetti che pur vorremmo lasciarci alle spalle, e che invece premono, come l’inconscio con la coscienza, per tornare alla ribalta con le loro richieste, i loro vincoli irrisolti. Sullo sfondo, un Cile che sembra vivere la stessa fatica dei personaggi di emanciparsi da un passato che è davvero passato, ma non senza lasciare ferite aperte, crisi, povertà, domande…
Ma Gloria ci piace, non possiamo (il pubblico femminile credo soprattutto, ma anche quello maschile) non essere empatici, identificati benevolmente con lei, perché Gloria è, essenzialmente, una donna vitale.
La cosa più difficile a questo mondo? Vivere! Molta gente esiste, ecco tutto –
(Oscar Wilde)
E’ vero che Gloria vive malesseri, problemi e conflitti simili a quelli di Rodolfo, ma non a caso il delizioso film del cileno Sebastian Lelio le regala il titolo, la mette ad assoluto centro della storia, portandoci a seguirla dentro il suo sentire, il suo punto di vista, la sua emozione. È la sua vitalità, quegli occhi vivaci e mai fermi, quelle scivolate su cui non indugia, non si lamenta, quella facile commozione al sentire le poesie, quelle simpatiche pallottole simboliche di vernice che alla fine “spara” sul povero Rodolfo piegato sui sacchi della spesa, che ne fanno una delle tante, anonime, coraggiose e stanche eroine cinquantenni dei nostri tempi. Scriveva ironicamente Conrad in uno dei suoi romanzi meno noti, “Chances” (‘Destino’, di recente tradotto in italiano per Adelphi come “Il caso”) del 1913, che “essere donna è un compito terribilmente difficile, visto che consiste principalmente nell’avere a che fare con uomini”. Forse è tematica eterna, come dimostra la datazione dell’osservazione di Conrad, o forse si pone oggi come crisi di punta del nostro mondo di cui molto si dibatte anche in psicoanalisi ma, certo, “gli uomini” che Gloria incontra, i “Rodolfi” che intercettano le sue speranze, sono soggetti deboli, fragili, ben lontani dal maschile rassicurante e forse idealizzato che Gloria deve aver sognato il giorno del matrimonio, di cui guarda malinconicamente le foto. Il figlio, l’ex marito, Rodolfo (cui il bravo Sergio Hernadez presta un volto, un corpo autenticamente sofferto e smarrito) soccombono là dove lei tenta, pur non senza cadute, di restare viva, di “ballare” il ritmo sempre diseguale della vita.
Il cinema cileno – che per me è sempre un piacere segnalare, con quello sudamericano in genere – conferma la sua vitalità, anche lui, e la sua raggiunta maturità con pellicole come questa (ricordo il bellissimo “Toni Manero”di Pablo Larrain, 2008): lieve, pacata, ma mai banale, intensa senza cercare il facile colpo di scena o l’emozione di superficie, sfuggendo agli stereotipi, da cui non è invece a mio avviso esente un certo cinema italiano, sulla single, la donna sola di cui si vorrebbe sempre il prevedibile copione o dell’incontro salvifico, o della discesa agli inferi. Né l’uno né l’altro per Gloria, la brava Paulina Garcìa meritatamente premiata come miglior attrice a Berlino.
Interessante declinazione di come il cinema, con la differente cifra stilistica dell’autore e anche del luogo, riesca a narrare, raccontare gli stessi conflitti in registri poetico – narrativi differenti: gli allievi di Lars Von Tiers, intorno a una cena come quella di Gloria in “famiglia” ne fecero il dramma nord-europeo di “Festen” del 1998, mentre il primo Almodovar ne avrebbe tratto uno dei suoi colorati e caricaturali melodrammi. Senza eccessi né scontati appiattimenti nel registro, lo ripeto, di un femminile non più giovane e dunque nostalgico o rabbioso e depresso, Gloria ha il dono, con intelligenza e tatto, di farci calare con rara immediatezza nelle maglie intime del personaggio: sembra di essere lì, con lei, dentro di lei. In quelle serate tutte uguali, poi nella promessa non mantenuta dell’incontro, nei risvolti ambivalenti e mai facili del pensiero, della scelta, e infine nel delizioso finale….Io ballo da sola, recitava un film di Bertolucci.
Con un ballo in una delle tante serate da copione si era aperto il film, e con un ballo si chiude, ma qualcosa si è pur modificato…niente di appariscente, niente svolte che non siano interiori, quasi impercettibili moti dell’anima: Gloria non ha più bisogno di buttarsi via, di ubriacarsi di braccia anonime.
L’azzeccata colonna sonora (di cui temevo, a torto, il tormentone della canzone di Tozzi che invece consacra elegantemente il ballo liberatorio di chiusura) segue, asseconda direi Gloria nel suo inquieto navigare nel mondo.
Poiché Gloria, ricordiamolo, ama ballare.
“È per l’erotismo come per la danza: uno dei partner s’incarica sempre di condurre l’altro.”.
(Milan Kundera)
ottobre 2013