Cultura e Società

Fratellanza – Brotherhood

21/07/10

N. Donato, Danimarca, 2009, 90
min.

 

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Commento di Rossella Valdrè

 

 

"E’ inconcepibile un amore fuori dal profondo, lontano, oscuro
fondamento sadomasochistico"

 

(P.P.Pasolini, Interviste corsare, 1972)

Quando Lars viene
allontanato dall’esercito, giovane e brillante militare in carriera di cui
viene scoperta l’omosessualità, inizia la sua reazione, il suo percorso di
odio. Possiamo seguirne lo sguardo, i pensieri persino, lungo tutta la durata
del film: la macchina da presa non lo lascia mai.

In cerca comunque di un
gruppo maschile di appartenenza, viene notato per la sua intelligenza e
capacità di esprimersi con coraggio, dal capo di un’organizzazione neonazista,
gruppo ferocemente xenofobo, omofobo e rigidamente organizzato al suo interno
come una setta. Se sulle prime Lars si sottrae, figlio di una borghesia
progressista che lo rende, da un lato, irremediabilmente diverso dagli altri membri del gruppo ma al tempo stesso anche in
rottura con i valori della famiglia, subito dopo entra a farne parte,
diventando in breve tempo uno dei membri più apprezzati e per il quale i
"grandi capi" (inquietanti figure tra il massonico e il Terzo Reich)
hanno in mente un fulgido avvenire.

Ma lo sguardo inquieto di
Lars, dentro ad un gruppo a cui è visibilmente estraneo se non per la forza
dell’odio che lo ha spinto lì, incontra presto un altro sguardo, un altro corpo
scultoreo su cui  posare il desiderio,
Jimmy. Ombroso, cupo, di poche parole, Jimmy convive con il grande dolore
di  avere un fratello tossicomane e
disperatamente dipendente da lui, Patrick, figura debole e vinta che nel gruppo
porta il volto scavato e perso di chi è condannato ad una marginalità povera e
rabbiosa, che non lo vedrà mai protagonista – da subito invidia Lars, infatti –
nè oggetto d’amore per il fratello.

La passione amorosa che si
accende tra Lars e Jimmy, sincera e violenta e tenerissima (come sembra che
ormai la filmografia sappia rappresentare così bene solo negli amori
omosessuali) avrà un esito inevitabile: venire scoperta, proprio dal dolente
Patrick, denunciata, duramente osteggiata fino al rischio di morte per Jimmy,
che avrà sempre l’amato Lars al suo fianco.

Un film d’amore, dunque? Un ‘Brokeback Mountain’ scandinavo? No, non
proprio, non solo. Ho brevemente introdotto e riassunto la vicenda amorosa
perchè essa fa certamente da perno poetico al film, ne costituisce l’ossatura
narrativa e ci regala bellissime immagini (i due ragazzi al mare, la loro
gioiosa solitudine mentre riparano la casetta che il capo ha ordinato per il
gruppo, i silenzi carichi di parole mai dette…), ma l’anima più interessante,
originale e dissacrante di questa opera prima dell’italo-danese Nicolo Donato,
intensa e a suo modo perfetta, a me è parsa da ricercarsi altrove.

Se è vero che vi è un universale nella storia di Lars e Jimmy
– l’universale della forza dell’amore nella diversità e della sua capacità di rottura con l’esistente, con le difese e
il pregiudizio – vi è qui uno specifico nel quale siamo da subito catapultati.
L’universo inquietante dei neonati gruppi naziskin, forse soprattutto nel nord
Europa, è qui raccontato in tutta la sua tragica verità e nel suo potenziale
pericolo. La verità di costituire puri ricettacoli di odio e frustrazione,
marginalità e devianza (sfigati!,
urlerà Lars quando alla fine ritrova sè, e prende le distanze), dove individui
allo sbando, inconsapevoli delle pulsioni che li abitano non hanno altro
scampo, altra possibilità di fuga se non nella formazione reattiva, da cui
l’omofobia, e nella proiezione nell’Altro di tutto il male, di tutto l’orrendo
non accettato in sè.

Omofobia, odio per lo
straniero, ignoranza, nostalgiche riletture del Mein Kampf si mescolano al bisogno disperato di appartenenza, di
identità, di conferma narcisistica validante, di regole chiare e certe, di quei
riti di iniziazione che la modernità ha abolito, lasciando gli adolescenti e i
più fragili in generale alle prese con un compito evolutivo sentito come
impossibile, troppo faticoso.

Gruppi che vivono e si
nutrono sotto l’impero della scissione (buono e cattivo irremediabilmente
separati, e il Buono sta tutto in me) e della negazione, per cui non sono io ad
avere dentro di me questa pulsione, ma sei tu: l’omosessuale, l’ebreo, l’arabo,
il musulmano, gli handicappati. Il diverso
da me. L’alterità. Potentissimi meccanismi difensivi che quando vengono
allo scoperto rivelano parti del sè non più integrabili, destinate a produrre
morte e annientamento per evitare il crollo del soggetto (viene ricordato
Hitler, nel film, quando fece fuori tutti i gerarchi delle SA, a lui carissimi,
perchè omosessuali). "L’indicibile
sofferenza provocata dalla vita pulsionale – scrive Bollas, in La struttura del male (1995) – può
creare oggetti di desiderio e situare il Sè in un tale apporto con il mondo che
non solo rende possibile la frustrazione, ma le pulsioni, che sono alla base di
precisi gesti e bisogni, spingono il soggetto a fare direttamente del male
all’altro. (…) la pulsione è vissuta come una forza distruttiva"
(corsivo mio). Il serial-killer citato da Bollas "ha ucciso quegli uomini
perchè voleva uccidere la fonte del suo desiderio omosessuale"(ib.)

Benchè la psicoanalisi
riconosca da tempo questi meccanismi (l’indicibile
sofferenza provocata dalle pulsioni), come ricorda Bollas, siamo in grado
di arginarli,  di porvi rimedio? O il
Male, "considerato come
struttura", è di per sè ineliminabile, irriducibile in quanto "corrisponde ad una complessa
riorganizzazione del trauma, in cui il soggetto ricorda la perdita dell’amore e
la nascita dell’odio, mettendo gli altri nella situazione inconscia di vedere
ucciso il proprio Sè
"(ib, corsivo mio).

La "complessa
riorganizzazione del trauma" di cui parla Bollas, è ben rintracciabile in
questo film. La vediamo nei volti, nei gesti violenti e disperati dei ragazzi
del gruppo, nel loro bisogno di affiliazione e dipendenza, intuiamo una
deprivazione precoce e insanabile, in tutti (e di cui il drogarsi di Patrick è
l’evidente specchio), che li congela nell’obbligo alla proiezione, impoverendo
così il proprio Sè sempre di più, in una sorta di mortale circolo vizioso.

Lars, è vero, è portatore di
un elemento di diversita’, di consapevolezza;
il suo traumatismo è meno radicale, la sua provenienza più benestante e
culturalmente meno deprivata, la sua rabbia più edipica, scagliata contro un
padre debole all’ombra di una madre fallica. Lars, infatti, sconvolgerà
l’assetto paranoide del gruppo, pagando un prezzo personale, ma riservandosi,
forse, un finale aperto.

Bisogna riconoscere agli
autori scandinavi, in questo momento culturale, il coraggio di far emergere
attraverso la filmografia e la letteratura, le crepe di un sistema che
credevamo, e certamente è, tra i più evoluti e democratici del mondo. Come
nella Svezia del fortunato Millenium
di Stieg Laarson, nelle parabole di Lars Von Tiers, qui l’omosessualità è anche, a me pare, metafora potente di
come ciò che viene scisso ed escluso, dalla mente individuale come dal tessuto
sociale, possieda inevitabilmente una forza che lo fa tornare, imponendosi,
per altre vie. Il ricacciato dalla porta, il rimosso o meglio il rigettato, torna inevitabilmente dalla
finestra, con tutta la forza che possiedono le pulsioni negate, spinte come da
una forza oscura a venire alla luce. Se l’omosessualità è metafora, il sesso,
dimensione sempre così presente nella narrazione omosessuale, diventa "un
simbolo" in cui "si concentra tutta l’alterità di una vita dominata
dalla classe dominante – scriveva Pasolini nella bellissima critica al Maurice di Forster (1972) – che ne è
sgominata e dissacrata fino alla dissoluzione".

Siamo introdotti da subito
in una cupa atmosfera omofila: corpi tatuati, frasi violente, machismo, inno
alla forza e alla virilità, assenza di presenze femminili nel film (con
l’eccezione, già menzionata, della madre di Lars, donna in carriera dominante e
maschile), ambienti militari e poi
settari, cameratismo e amicizia. Fratellanza. Quale è il confine tra l’amicizia
virile e l’attrazione omosessuale? Tra la brotherhood
e il gruppo gregario che agisce in assetto di attacco e fuga bioniano? Cosa fa
oltrepassare quel confine? E ancora, se ampliamo il discorso e lo
attualizziamo, come credo il film intenda proporre, le nostre democrazie sono
davvero in pericolo?

Dobbiamo guardare con
preoccupazione al successo delle destre anche in Paesi tradizionalmente
accoglienti e tollerenti come la Danimarca, dove oggi si infiltrano vene
xenofobe, e quindi anche omofobe, quando non francamente razziste, e
inquietanti atmosfere di nostalgia e
revenche rispetto alle pretese identitarie, alla paura che lo straniero ci
impoverisca e perciò vada perseguitato e scacciato, fino a venire ucciso o
deportato?

Intervistato da Albert
Jacquard sulle moderne forme di intollerenza, 
anche Pontalis si espresse con grande acutezza "….mettere fuori
ciò che non voglio e non posso ammettere in me, ciò che percepisco come
cattivo, colpevole, pericoloso. E’ proprio questo che si osserva nelle reazioni
razziste. (..). Ciò che pensavo confusamente come ‘cattivo’ in me, come
possibile eccesso di sessualità e aggressivitò, lo attribuisco all’altro che
diventa ‘l’oggetto cattivo’. Si vede il ‘vantaggio’ dell’operazione." E
aggiunge " Ma ho omesso di precisare questo: per espellere fuori di sè
occorre avere prima ingerito. Non si vomita che quanto si è mangiato. Non
esiste corpo estraneo che nel proprio corpo. Ritroviamo nell’individuale la
stessa convinzione constatata nel collettivo: ‘il nemico è in loco’. (…..) Il
paradosso è che si può trovare la propria identità a se stessi soltanto nel non essere identici agli altri. Il
razzismo come fenomeno di massa scomparirà solo con la risoluzione di questo
paradosso, cosa che implica identità multiple, eterogenee, mobili, e non il
trinfo dell’Uno, necessariamente distruttore
" (1988, corsivo mio).

Lasciamo Lars e Jimmy in un
letto di ospedale; non sappiamo se Jimmy sopravviverà all’agguato ricevuto, se
prevarrà la pulsione di vita su quell’Uno necessariamente
distruttore di cui parla Pontalis. Lasciamo anche Patrick, fratello povero
e maledetto, col peso della colpa di avere ‘fatto la spia’, divorato dalla
gelosia di non essere lui, ma Lars, l’oggetto d’amore del fratello; non
sappiamo come e se riuscirà a trasformare, ad elaborare dentro di sè una
qualche forma di riparazione, a tollerare infine quella fisiologica esclusione
dalla fratria, brotherhood, senza la
quale è condannato a restare drogato e bambino per sempre…..

 

Riferimenti bibliografici:

– Bollas C. (1995): "Cracking up", Cortina ed,
Milano, p164

– Pasolini P.P. (1972): "Edward Morgan Forster, Maurice"
in ‘Descrizioni di descrizioni’, Garzanti, Milano, 1996, p26

– Pontalis J.B. (1988): "Perdere di vista", Borla,
Milano, p79 e seg.

(pubblicato anche
su http://www.psychiatryonline.it)

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