Francois Ozon, Francia, 2016, 113 min.
Presentato alla 73° Mostra del Cinema di Venezia
Premio Miglior attrice esordiente a Paula Beer
(Rossella Valdrè)
Germania, 1919. Un paesino tedesco, una famiglia, tra le molte, piange il dolore del figlio ucciso in guerra, Franz, ospitando la fidanzata, Anna, che col suo amore ne mantiene in qualche modo vivo il ricordo, benché terminata la Grande Guerra da poco, le ferite dei morti sul fronte franco-tedesco sono ancora sanguinolente, le perdite reclamato odio reciproco, l’Europa un massacro, Ogni giorno, Anne va sulla tomba di Franz, e lo ricorda. Non vedremo mai Franz, se non in rarissimi flash –back di ricordi vaghi, eppure egli abita il film per intero: l’ingombrante presenza dell’assente è tema di tutta la poetica di Ozon (i lutti inconsolabili, direi, più che ‘medicalmente’ patologici’) qui imperniati nella rivisitazione di una pièce che Lubitsch aveva adattato nel ’32 col titolo “L’uomo che ho ucciso” (confronto, quindi, tutt’altro che facile) in anni in cui la ferita della guerra era ancora più sanguinante. Ma se nel film di Lubitsch il confronto con la verità è molto più diretto, in Ozon, come è tipico della sua cifra narrativa, la vicenda si tinge di coloriture molto più sfumate tra reale ed irreale. Sogno, ricordo, illusione, menzogna sono registri tutti, sapientemente dosati, intrecciati e compresenti nella dinamica del film.
Facciamo un passo indietro. Un giorno, il rituale solitario di Anne che piange sulla tomba di Franz è rotto da un altro visitatore: un giovane francese, Adrien, che va anche lui a piangere quello che dice essere l’amico morto. Accolto dai genitori di Franz con calore, racconta di averlo conosciuto a Parigi, delle loro passeggiate al Louvre a visitare il quadro più amato da Franz, “quello con l’uomo dal capo chino indietro” (particolare che si rivelerà importante) così che, da un lato, Franz torna a vivere nel ricordo animato che Adrien ne fa e, dall’atro, tra i due giovani nasce qualcosa che potrebbe diventare più che un’amicizia se non ci fosse l’ingombro della fedeltà al ricordo di Franz.
Lo spettatore percepisce subito, tuttavia, che qualcosa non quadra: Adrien, uomo “fragile” (come tutti gli artisti, si dice, essendo egli un violinista) è turbato, facilmente si agita. Infine si confessa: è lui ad aver ucciso Franz: era la guerra, non era Franz, era il soldato nemico di fronte a lui, non aveva identità finché non la ha acquisita nelle scoperte che in seguito Adrien fece su di lui. Un uomo inerme, con addosso la lettera di Anne, disarmato; Franz si è fatto uccidete. Adrien è cosi venuto a confessarsi, a chiedere perdono. Se questo è l’aspetto più scontato della prima parte del film, molto riuscita è invece l’invenzione del non avvenuto: nessuna arte come il cinema, nemmeno la letteratura, riesce a rendere la magia di come la mente, continuamente, inganna se stessa e gli altri. I racconti di amicizia tra Adrien e Franz sembrano veri, finiscono col diventare veri, tutti lo credono, e anche lui stesso; così immerso nell’avere immaginato Franz, dall’averne costruito un personaggio che ora lo perseguita. La colpa lo perseguita. Col tempo, Anne lo perdona e va a Parigi a cercalo, dove lo trova, delusa, rintanato nel recinto di una madre protettiva che funge da super-io severo ed incestuale contro ogni ingiuria del mondo perche Andrien è “fragile “ per definizione; i genitori di Franz lo hanno perdonato; la Chiesa di Dio lo ha perdonato perché la sua era “menzogna ma menzogna per fine puro”: ma Franz non si perdona, e dissipa la sua vita in un futuro matrimonio voluto dalla madre, al riparo da emozioni, al riparto da Anne.
Seppur, personalmente, preferisco la declinazione contemporanea della poetica luttuosa di Ozon (ricorderò sempre il sublime lutto di Charlotte Rampling in “Sotto la sabbia” del 2000, primo della cosiddetta “Trilogia del lutto” che si concluderà con 2Rifugio”), Franz è un bellissimo film, un melò senza sdolcinature, eccessi, affinato da un sapiente bianco e nero che sottolinea il senso del passato, del ricordo e della sospensione, con qualche brevissimo flash a colori su immagini fugaci di Franz: perché Franz, lo abbiamo detto, non esiste se non nella mente dell’altro. Non era forse il giovane solare che gli amati genitori credevano: il quadro di Monet che tanto amava, e spiega infine il cuore tematico del film, è “Le suicidé”. Franz abbraccia inerme la morte, si fa uccidere. Anne tenta il suicidio. Altri anche. Quando si parla dei morti nelle guerre, non si pensa mai, chissà perché (una nostra negazione, probabilmente) all’altissimo numero di morti silenziose, di suicidi. In un clima di odio ancora vivissimo, è da notare la sobria morale intelligente del padre di Franz: all’interno di una concitata discussione contro i francesi, il vecchio si chiede “chi ha mandato i nostri figli al fronte a morire? Siamo stati noi. Cosi come i padri dei francesi. Poi abbiamo brindato a birra sui lori figli morti, e loro a vino sui nostri figli morti, Abbiamo brindato sui nostri figli morti”. Il tema della responsabilità, non centrale nel film, tuttavia lo attraversa in questa frase incisiva: le colpe sono trasversali, sulle spalle di tutti, nelle guerre, e i vari Franz, che oggi ci perseguitano, pagano il prezzo.
Via via che il film si dipana, le verità “storiche” dei personaggi si chiariscono: Adrien ha confessato, Anne ha perdonato e sceglie di restare a Parigi ma, tuttavia, come le aveva detto il prete, inutile regalare verità che non servirebbero a niente, solo al narcisismo di chi le rivela: continua così a scrivere ai cari genitori che Adrien è un noto violinista, che lei ne segue le tournee, occultando quel fallimento esistenziale che sarebbe per loro la perdita di un secondo figlio. Ci sono buone cattive verità, dice il film, a voce bassa, ricordi idealizzati e gentili memorie, sensi di colpa come macigni che non lasceranno mai, nessun perdono terreno è sufficiente, ci sono destini segnati. Quello di Franz forse lo era.
Non quello di Anne. La bellissima scena finale la vede ritornare al Louvre, ormai diventato luogo-simbolo di un passaggio esistenziale, sedersi di fronte a “Le suicidé”, sorridere. Un giovane ammira lo stesso quadro, ugualmente rapito:
“ è un quadro che mi dà gioia”
L’assente non la ingombrerà più con la sua costante presenza. La gioia d’aver compreso, e dunque liberata, è la maggiore delle gioie.
“L’assenza dice più della presenza “
(Frank Herbert)