Autore: Elisabetta Marchiori
Titolo: Figlio di nessuno (No one’s child)
Dati sul film: di Vuk Ršumović, Serbia, 2014, 97′
Trailer:
Genere: Drammatico
Trama
Il regista Vuk Ršumović, con questo suo primo lungometraggio, ha meritato il Premio della Settimana Internazionale della Critica alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia.
La storia, realmente accaduta, è quella di un ragazzino sulle soglie dell’adolescenza, trovato da cacciatori nella primavera del 1988 fra le montagne della Bosnia, cresciuto fra i lupi. Gli viene dato il nome di Haris e viene portato in Serbia, all’orfanotrofio di Belgrado, dove è affidato alle cure di Ilke. Il ragazzino, soprannominato Puchiche, cammina a quattro zampe, non parla, ringhia e morde, mangia dopo aver buttato il cibo per terra, rifiutando il pane: è come un giovane lupo. Il personale dell’Istituto che lo ospita non sa come accoglierlo nè come trattarlo: lo chiude in una stanza, ritenendolo irrecuperabile. Tutti gli altri giovani ospiti lo osservano incuriositi e lo scherniscono crudelmente. Tutti, tranne Žika, in piena adolescenza, che lo “addomestica”, lo difende, lo porta con sé come fosse il suo cucciolo, insegnandogli a giocare, dandogli ordini decisi, mai violenti, contenendolo nelle sue reazioni di aggressività, rendendolo in grado di capire il suo linguaggio. È lui a dimostrare agli educatori i progressi del suo amico selvaggio, mostrandolo sotto una luce diversa. Da quel momento si apre la speranza e Puchiche, adeguatamente seguito, impara non solo la postura eretta e ad usare le posate, ma anche a parlare e a scrivere, sviluppando in modo inaspettato le sue potenzialità di “piccolo uomo”.
Quella raccontata dal film non é tuttavia una storia di integrazione, né di redenzione, né di salvezza. Žika va incontro ad un destino tragico lasciando solo Puchiche che, quando scoppia la guerra, nel 1992, è costretto dalle autorità a tornare in Bosnia a combattere. La sua esistenza “nella civiltà”, è costellata da abbandoni, perdite, violenza. Tuttavia Puchiniche, che può ancora mordere, si rifiuta di imparare a sparare.
Andare o non andare a vedere il film?
Il soggetto non è originale, richiama Il ragazzo selvaggio di Truffaut e Il libro della giungla di R. Kipling (con le sue varie versioni cinematografiche). Il regista lo affronta evidenziando gli elementi di realtà e mostrando con maestria la differenza tra quello che è il comportamento e quello che è “l’essere” del protagonista, che ha imparato ad essere un lupo e ha imparato ad essere un uomo, ma è stato privato di quella continuità evolutiva necessaria ad integrare le sue parti primitive, animali, con aspetti di crescita.
La sua esistenza ha subito un cambiamento troppo radicale, traumatico, per permettergli una evoluzione nel “divenire soggetto”. E con la sua quella di tanti altri bambini, “selvaggi”, “inselvatichiti” e resi disperati dalle atrocità della guerra e dagli abbandoni.
Nell’evolversi della storia, la macchina da presa, che inizialmente sembra stare nello sguardo di Puchiche, si sposta all’esterno, facendo provare allo spettatore il senso di spaesamento e di estraneità del protagonista. Nel film, ricorre spesso la domanda “che ne facciamo di lui?”. Ma Puchiche, di loro, di noi e di questo mondo, che se ne può fare?
La versione dello psicoanalista
Ho letto sulla rivista di cinema Ciak (settembre 2014), a proposito di questo film, che “quello tra adolescenza e cinema è un lungo, inesauribile rapporto amoroso” e penso che la triangolazione di questa coppia con la psicoanalisi renda il rapporto ancora più vivo e appassionante.
Cinema, adolescenza e psicoanalisi “si rigenerano nella creatività e sono accomunati dalla speciale capacità – non sempre comoda – di sconvolgere i solidi dati di realtà, indicarci nuove strade e stupirci”, come ben argomenta la raccolta di saggi a cura di Carbone, Cottone e Eusebio (2013).
Questo film riesce a fare “immedesimare” lo spettatore nei protagonisti adolescenti. Immedesimazione nell’accezione definita da Goisis nel suo libro Costruire l’adolescenza (2014) come “quel meccanismo, precursore dell’empatia, che permette di capire profondamente gli altri, mettendosi nei loro panni, senza diventare l’altro”.
No one’s child è un film che non si dimentica, rimane dentro lo spettatore per la forza delle immagini, per la profondità dei contenuti, perché gira il coltello nella piaga sanguinante dei bambini costretti a combattere, non solo nelle guerre armate dichiarate.
“Se volete sapere la mia opinione, se i ragazzi a mano armata sono così è perché non li avevano scoperti quando erano bambini e sono rimasti né visti né conosciuti. Ci sono troppo bambini per accorgersene, ce n’è perfino di quelli che son costretti a crepare di fame per farsi notare”, pensa Momo, il ragazzino protagonista del romanzo di Roman Gary La vita davanti a sé.
Non ci si poteva esprimere meglio.
Aprile 2015