Parole chiave: amore, morte, indentificazione con l’aggressore, violenza di genere, patricidio
Autrice: Patrizia Santinon
Titolo: “Familia”
Dati sul film: regia di Francesco Costabile, Italia, 124’
Genere: drammatico
Il film racconta la storia vera della famiglia di Luigi Celeste, detto G., autore del libro da cui la pellicola è tratta, “Non sarà sempre così” (2017). L’attore protagonista, Francesco Gheghi, ha vinto il Premio per la miglior interpretazione maschile nella sezione Orizzonti, Festival del Cinema di Venezia 2024.
Il testo comincia con un dialogo interiore di G., giovane adulto nel carcere di San Vittore, in cui si incita a respirare: “il mio corpo è l’unica cosa che ho. L’unica cosa che non mi possono togliere” (ibidem, 11). G. fatica a compiere questo atto vitale ogni volta che i genitori cominciano a litigare: l’incoraggiamento a prendere fiato arriva a lui, ancora bambino, dal fratello maggiore, quando si consuma la violenza dietro la porta chiusa della camera dei genitori. La rimozione di intere parti dell’immagine, non completamente accessibili allo sguardo, che la visione integrale renderebbe insostenibili, suggerisce l’irrapresentabilità di quanto accade in questo tragico “gruppo di famiglia in un interno”, per citare il titolo del film Luchino Visconti del 1974.
Licia, la madre, il cui punto di vista sembra organizzare la narrazione filmica in coincidenza della carcerazione del padre, come se solo in sua assenza fosse possibile per lei riprendere fiato e vita, asseconda ogni volta la richiesta del figlio di riaccogliere il padre. Incapace di proteggerlo e di proteggersi, cede passando dal terrore alla sottomissione e , infine, all’offerta del corpo-carcassa. Il corpo su cui l’uomo perpetratore si accanisce è quello che gli ha dato la vita, che se ne è preso cura nel momento di maggiore inermità e dunque di dipendenza. In questo senso il bisogno di difendersi dall’angoscia di perdersi nel femminile, svalutando e controllando, può essere visto come fuga come una fuga dai bisogni infantili di dipendenza.
G. è soffocato dal bisogno di trovare la complicità del padre a qualsiasi costo, nella speranza che lui cambi, imparando molto presto nella sua vita infantile “a indovinarne tutti i desideri, a obbedirgli ciecamente, a identificarsi completamente con lui” come ci suggerisce Ferenczi (1992, 98).
G. si inserisce da adolescente, sprovvisto di altra protezione, in un gruppo di skinhead: realizza così una possibile affiliazione tra pari, reciprocamente legati dal rito di passaggio in cui il protagonista ripete le regole della X MAS[1]– – in un rosario che impone, alla regola dieci, fedeltà e obbedienza.
G. sembra muoversi nelle sue fughe in auto come in uno stato dissociativo: anche cinematograficamente è bene resa l’esperienza di uno stato oniroide, come se la condizione abusante fosse vista dall’esterno fino alla perdita di una centratura, fino alla totale negazione della realtà. Le violenze agite sulla madre, la violenza assistita di cui sono state vittime per anni lui e il fratello, il padre stesso con cui finisce ad un certo punto con l’identificarsi, scompaiono come realtà esterna e da extrapsichici divengono intrapsichici e inconsci. Sono sottoposti così al processo primario “vale a dire ciò che è intrapsichico può essere, in base al principio di piacere, plasmato e trasformato in modo allucinatorio. In ogni caso l’aggressione cessa di esistere” (Ferenczi, 1992, 96).
Il protagonista recupera solo alla fine il ricordo di quanto accaduto nella stanza dei genitori: interrompe il ripetersi della violenza con il parricidio. Solo riconoscendo la morte del genitore, la perdita, la colpa, accogliendo la nostalgia di un idillio familiare che non c’è mai stato, si può dare spazio dentro di sé ad una naturale spinta conoscitiva del proprio mondo interno, cercare un senso soggettivo dell’esperienza con un altro, fedele e affidabile, che sostiene, custodisce, protegge. Se non lo avesse fatto, ci sarebbe stato quello che oggi chiamiamo femminicidio? O sarebbe stato il suo suicidio psichico, una rinuncia alla disidentificazione dal padre aggressore e dunque ad una nuova nascita? Come scrive Luigi Celeste: “Quando il conto sarà scaduto e questi anni saranno solo un ricordo che mi sveglierà di notte sudato, scriverò sul corpo anche la rinascita. I volti della mia famiglia. I sopravvissuti” (2017,13). L’eliminazione fisica del genitore non è qui l’esito dell’equivalenza psichica, piuttosto evidenzia “il vuoto nel luogo psichico che dovrebbe ospitarlo come autorità interna” (Thanopulos, 2015)[2]. Mentre Edipo fa propria l’intenzione materna, inconsapevole del suo significato e delle sue implicazioni, qui G., a partire da una madre privata di intenzionalità, del suo punto di vista come spesso accade alle donne vittima di violenza in una condizione di vittimizzazione permanente, agisce tra disperazione, quella del “sarà sempre così”, che i personaggi del film ripetono in più momenti di questa tragedia e speranza, che sia possibile un cambiamento, e che dunque “Non sarà sempre così”.
Bibliografia
Celeste, L., Loffredi S. (2017). Non sarà sempre così. La mia storia di rinascita e riscatto dietro le sbarre. Milano, Piemme.
Ferenczi S. (1932). Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino. Opere, IV, Cortina Editore, 1992.
[1] Un corpo militare indipendente di matrice fascista che negli anni della Repubblica Sociale Italiana arruolava giovani volontari, spesso minorenni, con l’ideologia del combattentismo e della morte eroica.
[2] https://ilmanifesto.it/uccidere-i-genitori