Ricordato in occasione della straordinaria vicenda di Isabelle Dinoire, la sfigurata e trasfigurata donna dai due volti trascesa per destino ad icona dell’immaginario collettivo, “Face off”, estroso film di John Woo, porta in sé nuclei anticipatori delle nuove epoche ancor più inquietanti di una fantascientifica premonizione. Poiché l’uomo del nuovo millennio, sostituibile in quasi ogni parte del corpo, mediaticamente mixato in nuove soggettualità virtuali, “divinamente” protesico come aveva profetizzato Freud nel ‘29 in “Disagio delle civiltà”, va incontro con procedere convulso a ben più profonde ibridazioni identitarie: non solo trapianti e innesti di parti di sé, ma forme e connotati interscambiabili a tutti i livelli. In un profondo mutamento di limiti e frontiere, ideologie ed etiche perdono i loro normali confini, aprendosi, in una sorta di antropoafanisi, a nuovi scenari in cui le precedenti certezze categoriali si dissolvono nel devastante contesto economico e geopolitico che spinge all’agonia l’Occidente, in assordante contrasto con la onnipotente promessa delle espansioni scientifiche e tecnologiche.
Come il filosofo Natoli, teorico delle nuove etiche, avverte: “l’esistenza dell’umano volge oggi ad una configurazione profondamente inscritta nella metafisica del tragico, in un sottolinearsi della fragilità del Bene”.
E forse questa la più interessante intuizione di John Woo che, pur nella edulcorazione di una benevolenza rassicuratoria non ancora del tutto perduta negli ultimi bagliori degli anni ’90, nel suo film lascia intravedere quello che diverrà nel decennio successivo dolorosa impronta dell’incedere umano: la perdita delle illuminate egemonie, della chiarezza delle vie della salvazione, di una netta demarcazione del Bene e del Male.
Con una abilità rappresentativa che trascende l’apparenza di un thriller non proprio originale, Woo ripropone, in quadri di regia di rara perfezione, l’antico tema del doppio e degli sdoppiamenti infondendo loro rinnovata efficacia.
Nell’intricato svolgersi di una trama talora surreale, il film, profetizza con genialità anticipatoria il tramonto di categorie morali in grado di autodefinirsi. Per scongiurare un attentato, un poliziotto rapisce un terribile criminale sostituendosi a lui tramite l’innesto della faccia. Il criminale senza volto, risvegliatosi, obbliga il chirurgo, eliminato poi insieme a tutti i testimoni, a trapiantargli il volto del poliziotto di cui a sua volta prende il posto. Mentre la storia poliziesca fa il suo corso, lo scambio di vestigia e di ruoli tra spietato killer e buon poliziotto comporta, in sconcertanti sequenze, una sorta di aggiustamenti compensatori. Valenze complementari si rivelano in grado di riparare integralismi ed eccessi: bontà e crudeltà si pongono, nelle transazioni che precedono la resa finale, al reciproco servizio: decisione e determinazione del cattivo contro debolezza e passività del buono, seduzione ed eccitazione contro noia e routine, e viceversa il prevalere degli affetti contro l’alexitimia criminale, ricompattano ed equilibrano dinamiche familiari.
Ne deriva una versione moderna del tema dello specchio, culminante in magiche scene di potentissima efficacia in cui nessuno è colui che appare, ove lo scambio delle sembianze sottende insolite intersezioni della eterna lotta del Bene e del Male. E non è difficile scorgere, nel magnifico film del regista cinese, l’avvertimento di un tempo futuro, il nostro, in cui i termini delle verità dissolveranno dal loro valore assoluto innestando nel volto illividito del nuovo mondo le tracce dolenti di profonde incertezze.
E davvero non possiamo fare a meno di chiederci: “Che ne è di Isabelle?”.