Parole chiave: Temporalità, Edipo, Conflitto, Adolescenza
Autore: Angelo Moroni
Titolo: “Everything Everywhere All at Once”
Dati sul film: regia di Daniel Kwan & Daniel Scheinert, USA, 2022, 139’
Genere: commedia, fantascienza, drammatico.
“Everything Everywhere All at Once” è un film pantagruelico, proteiforme, eccessivo, per così dire bulimico, anche relativamente ai molti premi conseguiti, tra cui sette Oscar 2023: miglior film, miglior regia, miglior colonna sonora, miglior sceneggiatura originale. La lista sarebbe troppo lunga per lo spazio di una recensione.
Cominciamo col dire che Michelle Yeoh, la protagonista, è il motore centrale, il baricentro di un film che ruota completamente intorno a lei. Interpreta Evelyn, immigrata cinese negli Stati Uniti, che gestisce una lavanderia a gettoni a conduzione familiare insieme al marito Waymond. La sua vita sta attraversando un periodo molto difficile, dal punto di vista economico, matrimoniale e relazionale, con il suo controverso rapporto sia con la figlia adolescente Joy (Stephanie Hsu) — di cui non tollera il rapporto omosessuale — sia con il vecchio padre Gong Gong, indementito e pesantemente presente nella sua vita. In più una spietata funzionaria dell’ufficio fiscale (Jamie Lee Curtis) sembra perseguitarla nel voler ossessivamente controllare i libri contabili della lavanderia. Proprio durante un incontro nell’ufficio della funzionaria, Evelyn incontra un’altra versione di Waymond, proveniente da un universo chiamato “Alphaverse”. Alpha-Waymond spiega a Evelyn che esistono molti universi paralleli, poiché ogni scelta fatta crea un nuovo universo. Le persone dell’Alphaverse, guidate da una defunta Alpha-Evelyn, alterego della stessa Evelyn, hanno sviluppato una tecnologia di “salto-verso” che consente alle persone di accedere alle abilità, ai ricordi e al corpo delle loro controparti dell’universo parallelo, soddisfacendo condizioni specifiche. Il multiverso è minacciato da Jobu Tupaki, la versione Alphaverse di Joy, la figlia di Evelyn. La perfida Jobu Tupaki/Joy è in grado di sperimentare tutti gli universi contemporaneamente, e può saltare e manipolare la materia a piacimento. Con il suo potere divino ha creato un buco nero a forma di “bagel”, la cui potenza attrattiva vuole distruggere Evelyn e tutta la sua famiglia. La lotta feroce per la sopravvivenza si concluderà con il ritorno di tutti i componenti della famiglia nel nostro “normale” universo.
A partire da una fabula familiare molto semplice, Daniel Kwan e Daniel Scheinert generano una sperimentazione filmica che mescola tutti generi cinematografici, costruendo una girandola pirotecnica e straniante che ricorda molto “Brazil” (1985) di Terry Gilliam, ma andando molto oltre quel tipo di sperimentazione.
Il film è denso di citazioni esplicite, che vanno da Tarantino a Gilliam stesso, fino a Nolan e Kubrick, per arrivare al ciclo dei film della Marvel, in particolare quelli che introducono il tema del “multiverso” di “Doctor Strange” (2016, 2022). Sono citazioni che lavorano ibridandolole con l’estetica delle graphic novel.
Risulta molto difficile renderne la struttura, poiché il film prende molte direzioni narrative differenti e simultanee, inseguendo un moto che potremmo definire idealmente “quantistico”. La sceneggiatura è infatti costruita su piani che si rifrangono continuamente in modo frattale, cioè come un oggetto geometrico che si ripete nella sua forma allo stesso modo, ma su scale diverse. Questa modalità è appunto proteiforme, fino a chiudersi tuttavia in un cerchio finale perfetto, dopo aver dipinto un affresco che utilizza registri stilistici variegati, che vanno dal fumetto allo splatter, al porno soft, al drammatico, al fantascientifico.
Lo spettatore segue la protagonista attraverso differenti rifrazioni del suo Sé che si scompone in tempi e luoghi diversi, cioè attraverso un “multiverso” spazio-temporale che si forma e trasforma ad un ritmo velocissimo davanti agli occhi dello spettatore, ma mantenendo sempre una notevole coerenza narrativa.
Da un vertice psicoanalitico il film è interessante, oltre che sotto il profilo dell’innovazione estetica, perchè propone un punto di osservazione inedito dell’Edipo e dei suoi intrecci emotivo-affettivi familiari. Un Edipo scomposto attraverso un prisma ottico visivo e narrativo che ne rimanda innanzitutto la dimensione temporale, generazionale. Siamo di fronte a una famiglia alle prese con l’adolescenza dei figli, a conflittualità e discontinuità che essa introduce violentemente nel gruppo familiare, nonchè al vissuto di invecchiamento dei genitori che, spesso, faticano ad accettare questo inconscio passaggio di testimone. Nel film è come se i due registi, a partire dalla classica quadricotomia edipica, la trasformassero in un algoritmo narrativo virante verso un loop che richiama un “eterno ritorno dell’Uguale” nietzschiano, un’ irruzione del dionisiaco nel cuore stesso dell’Edipo. Se guardassimo il film in chiave mitologica, potremmo infatti pensarlo come la messa in scena, sia tragica che comica, di un balletto nella cui coreagrafia Dioniso ed Edipo vanno a braccetto, rappresentanti, rispettivamente, la Vitalità senza limiti e la Colpa tragica, entrambe cifre distintive dell’umano. Essi non sono mai separabili, se non attraverso un’operazione meramente cartesiana ed inutilmente razionalizzante. “Everything Everywhere All at Once” è un film che al termine della sua visione lascia storditi, come quando si scende da una giostra che ci ha fatto vorticare in aria a lungo. Ma, allo stesso tempo, insieme all’iperstimolazione visiva cui ci obbliga, ci lascia anche, nel finale, con una sensazione di sottile struggimento. Un sapore quasi romantico, oserei dire, che ci ricorda la necessità di guardare la commedia umana in cui tutti siamo coinvolti, con una giusta pietas e con uno sguardo sempre attraversato dalla tenerezza.
Aprile 2023