Cultura e Società

“Don’t look up” di A. McKay. Recensione di A. Moroni

28/12/21
“Don’t look up” di A. McKay. Recensione di A. Moroni

Autore: Angelo Moroni

Titolo: “Don’t look up”

Dati sul film: regia di Adam McKay, USA, 143’, Netflix

Genere: fantascienza, drammatico

“Don’t Look Up” all’inizio ha tutta l’aria di un banale disaster movie natalizio, ma nel suo sviluppo narrativo diventa un film profondissimo, che spiazza su più fronti lo spettatore. Non è forse un caso che Netflix abbia deciso di farlo uscire proprio la vigilia di questo Natale anomalo, ancora turbato dall’incertezza dell’andamento imprevedibile di una pandemia che non dà tregua. A dispetto della sua apparenza “natalizia”, è un film che non ha certo l’obiettivo di essere consolatorio ma, al contrario, introduce temi assai poco mainstream, orientati verso un’acuta e impietosa riflessione sull’attualità che stiamo vivendo e sulle sue criticità sul versante sanitario, sociale ed economico.

Il film colpisce subito per il cast stellare che Adam McKay (“La grande scommessa”, 2015) chiama a raccolta: Leonardo Di Caprio, un professore di astrofisica nevrotico e coinvolto in un evento più grande di quanto potesse aspettarsi; Jennifer Lawrence, una dottoranda in astronomia; Meryl Streep, una cinica Presidentessa degli Stati Uniti; Kate Blanchet, una sorniona giornalista televisiva senza scrupoli; Timothée Chalamet, un giovane skater newyorkese. Tutti i personaggi sono alle prese con una enorme cometa che si sta dirigendo velocemente verso la terra. Questo evento va tuttavia subito in secondo piano, e lo script si dedica completamente a una critica serrata della miope ipocrisia dell’ambiente politico, di quello finanziario e di quello mass-mediatico, nell’affrontare e nel tentare di governare l’incombere di una realtà traumatica devastante, che minaccia di distruggere l’intero pianeta. È evidente il richiamo a questi due anni di pandemia, durante i quali siamo stati invasi da notizie contrastanti e confondenti da parte dei mass-media, circa un virus che, proprio come l’asteroide alieno, si è abbattuto improvvisamente sull’intera umanità, trovandola del tutto impreparata. Come affronta simili calamità chi ha le più alte responsabilità politiche e sociali, sembra domandarsi e domandarci il regista? Il tema del “negazionismo”, così come quello del ruolo della scienza nei suoi rapporti controversi con la politica, sono molto ben raccontati in questo film, girato con movimenti di camera a mano magistrali, morbidi, quasi avvolgenti quando si allungano sui protagonisti, facendoceli sentire vicini e rendendoci più partecipi del loro destino. Un destino che il regista ci fa, con gradualità sorniona, a poco a poco vivere emotivamente come il nostro.

Ciò che McKay evidenzia è l’inautenticità della comunicazione politica nella sua nefasta collusione con l’informazione giornalistica: due forme di onnipotenza che sono in grado di trasmettere alle masse un Ideale di Falso Sé grandioso capace di ipnotizzare le coscienze in modo decisamente autodistruttivo.

Come sottolinea Foresti, nel film risulta “convincente soprattutto l’impossibilità di dire e far ascoltare il vero” (Foresti, 2021)[1] in un’epoca in cui sono imperanti le fake news e gli “sciami” continui e martellanti dei messaggi Twitter e di tutti gli altri social media. Il giudizio di realtà e il senso critico sono come paralizzati da un’ambiguità comunicativa dilagante, che ha come scopo la manipolazione e il diniego della realtà a fini strumentali. Parafrasando Bion (1962), potremmo dire di trovarci in un’epoca nella quale regna una modalità conoscitiva in – K, piuttosto che una conoscenza in K, basata cioè su una affettività autentica. Come ha scritto recentemente il filosofo Paolo Virno (2021),oggi viviamo una “vita nell’epoca della sua paralisi frenetica”.

McKay utilizza i registri del sarcasmo, del grottesco e dell’ironia dissacrante per allestire una delle più riuscite critiche della società e dei media americani (e di tutti i Paesi Occidentali, compresa l’Europa) che abbiamo visto al cinema. Una critica serrata, senza sconti, che scorre via veloce, pur nelle quasi due lunghe ore e mezza di film che tengono comunque sempre, sapientemente, incollato lo spettatore allo schermo. Complice di tale effetto, insieme straniante e generatore di pensiero, è un montaggio ritmicamente perfetto, nel quali il regista inserisce fermi immagine, zoomate su dettagli che non ci aspetteremmo, primissimi piani filtrati in stile docku-film amatoriale, in momenti di particolare pathos . Il tutto mixato con grande maestria estetico-filmica.

Il film parla molto di noi, di ciò che vive l’umanità di oggi, della nostra sofferenza, di quella freudiana originaria hilflosigkeit (impotenza) che sottoponiamo spesso a diniego per non entrare in contatto con le nostre fragilità e con la nostra finitezza, per non dire a noi stessi “la verità” su un mondo, su una Natura che abbiamo sfruttato utilitaristicamente fino a portarla ad autodistruggersi.

È un film che si potrebbe psicoanaliticamente definire “kohutiano” per la sua grande capacità empatica di “entrare” in contatto con le emozioni dello spettatore, di sintonizzarsi col sentire e con le paure che caratterizzano il quotidiano di ognuno di noi.

Riferimenti bibliografici

Bion, W.R. (1962), Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972.

Virno, P. (2021), Dell’impotenza, Bollati Boringhieri, Torino.

Dicembre 2021   


[1] G.Foresti, comunicazione personale (dicembre 2021)

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