Autore: Amedeo Falci
Titolo: Dolor y Gloria
Dato sul film: regia di Pedro Almodovar, Spagna 2019, 113’.
Genere: Drammatico
La frontalità del sesso in Almodovar. Metacinema e metapsicologia
Le riflessioni di un brillante, vivace, trasgressivo, irriverente (tutti questi aggettivi andrebbero in verità aggiornati e preceduti dal prefisso “ex”) ed acclamato regista spagnolo settantenne – ma chi potrà mai essere? – che, dopo una creativa carriera, guarda all’orizzonte meno remoto della sua vita, tra le sue malattie, i suoi amori perduti, le sue amicizie spezzate, la sua strisciante depressione umorale e artistica, i suoi bilanci, e il suo goffo corteggiamento dell’eroina. Seguiamo il regista nei suoi ‘passi perduti’, nel suo affondare, nei suoi peregrinaggi tra medici, nell’isolarsi da amici, nel rintanarsi nella sua casa ipermoderna, tra i suoi libri e gli amati quadri. A tratti sembra che ricordi della sua infanzia lo assalgono, o forse no: è lui che li cerca perché ne è aiutato a ricomporre una trama. Ecco la madre, il trasferimento a Paterna, in una casa scavata nella roccia, una vera e propria grotta, l’incontro con un giovane manovale a cui lui, da piccolo, aveva insegnato a scrivere. Mentre tutto questo sembra in incubazione, è proprio il riapparire, per una assoluta casualità, di un ritratto semplice e naïve di lui bambino, cha fa da inaspettato collegamento con qualcosa di folgorante nella sua infanzia.
Più che appartenere alla serie riflessiva e meditativa, che fa i conti con le memorie del passato, esaurito il filone della pazza Madrid post franchista, questo “Dolor y Gloria” sembra, piuttosto, ispirato da un Dedalusjoyciano al contrario: il ritratto dell’artista da anziano. Ventesimo film, circa, della produzione almodovariana – a parte un certo numero di corti – questo sembra seguire la traccia di “Tutto su mia madre” (1999), “Parla con lei” (2002), “La mala educatión” (2004), “Volver” (2006), “Julieta” (2016), opere che estrinsecano un diverso tipo di ricerca autoriale che negli intrecci tra i personaggi, con tutti i suoi plot melodrammatici, approda all’emergenza delle memorie d’infanzia, e a ritratti meno convenzionali e di maggiore finezza su uomini, donne, amori, figli, nascite e morti. Qui, in aggiunta, il gravame del settimo decennio, l’inaridimento artistico e creativo, la noia depressiva, la ruminazione ipocodriaca sui molti mali del corpo, del corpo senile. Senile ma non tantissimo, se poi, nell’abbraccio di addio con il suo amore di trent’anni prima, Almodóvar ci tenga a far sapere come la virilità dia i suoi palpiti ancora. Davvero eccellente Banderas, premiato come miglior attore a Cannes, in questa sua resa attoriale tutta in auto-contenimento e in sottrazione.
Forse inizialmente, e per tutta la prima parte, siamo assaliti dal timore che Pedro ci possa annoiare. Nessun ammiccamento trasgressivo, nessun civettamento sessuale, nessuna caratterizzazione trans-gender, pochissimo intreccio melodrammatico. Ci sembra di avere già visto tutto: la crisi creativa, il tedium malinconico, la solitudine affettiva, i bilanci amorosi, i bisticci isteroidi tra vecchi amici, le patologie incombenti, le case ipercolorate ai limiti del kitsch dei registi madrileni, e anche le donne che si prendono cura del (e amano segretamente il) genio “triste, solitario y final “(Osvaldo Soriano).
Finché solo nell’ultima parte del film, quando sembra che la mesta conclusione sia incombente, ecco che il Genio (qui ci vuole) colpisce ancora. Tutto si risveglia, acquista un senso, i segni sparsi delle memorie infantili si riorganizzano, e ben oltre il nostalgico amarcord di omaggio alla madre.
C’è qualcosa che accosta “Parla con lei” e questo “Dolor y Gloria”. La frontalità esplicita del nudo genitale, elemento in genere coperto da una certa interdizione nel cinema, a parte l’esplicitezza del genere porno, ma quella è un’altra storia.
Rarissimamente, come nel primo film, era stata rappresentata con tanta chiarezza finzionale e giocosa – si trattava di un dispositivo di gommapiuma – la frontalità della vulva, di una immensa vulva in tutti i suoi dettagli, a cui l’infermiere Benigno accedeva magicamente e straordinariamente per la prima e unica volta nella sua vita, mettendo, forse inconsapevolmente, incinta Alicia, la sua assistita in coma che accudisce e ama. Così come è la frontalità del fallo del giovane muratore, fallo in luce e ombra, visto/non visto/scotomizzato/forcluso – direbbero quelli che hanno fatto le scuole serali – che fa svenire il piccolo Salvador. Due anatomie opposte che coincidono nei loro analoghi effetti di seduzione, smarrimento e perdita di sé sugli esseri innocenti; Benigno è un adulto bambino, che non ha ancora compiuto il suo orientamento oggettuale-amoroso.
Così Almodóvar infrange il tabù cinematografico della non rappresentabilità frontale dei genitali, per (ri)costruire questa meravigliosa storia su “el primer deseo”sessuale del piccolo Salvador. La grotta dove abitano il piccolo e la sua famiglia ci segnala in pieno il registro atemporale e favolistico della apparizione fallica. Che cosa accade nelle grotte se non il “c’era una volta”? Ma ci hanno insegnato qualcosa sulla prolessi (sempre le scuole serali), e avevamo già colto gli indizi di quel primo incrociare di sguardi tra il piccolo e il giovane, e di quella mano che regge l’altra nelle prove di scrittura. Allora tutti i particolari sparsi si inanellano.
Quei dialoghi finali, semplici e intensi, con la madre anziana rendono efficacemente quella continuità perenne dell’amore senza tempo di Salvador/Pedro per la madre. Quel tentativo di dormire rende efficacemente il presentimento turbativo del piccolo che si ripara in un tentativo di incoscienza, fino allo svenimento che è insieme il perturbante, la seduzione, l’abbagliamento, la negazione, l’accecamento.
Anche senza la sapienza metapsicologica – certo il desiderio è lievemente postdatato rispetto alla primissima infanzia, ma che importa?- Almodóvar forse, ugualmente, la intuisce, questa sapienza. E la intuisce soprattutto riguardo a perturbante, seduzione, derealizzazione e desoggettivazione.
Almodóvar ci regala la straordinaria reinvenzione letteraria dell’irruzione del trauma fondativo del desiderio infantile. Un “primer deseo”che si genera in un tempo mitico e favolistico, e che si imprime in tutta la vita amorosa.
Messa in scena ancora più audace, e pericolosa, questa, perché narra del desiderio emergente dall’incontro di due sguardi d’amore impossibili – del giovane adulto sul piccolo e del piccolo sul giovane adulto – che trovano un punto di congiunzione. O forse sarebbe più appropriato dire di sublimazione, in quel ritratto di Salvador con il libro in mano, che miracolosamente, sessant’anni dopo, il caso – indecifrabile deus ex-machina della narrativa almovodariana – recapita al suo originario destinatario.
“El primer deseo”è dunque l’iscrizione dell’urto perturbativo e sconvolgente del sesso dell’altro sullo sguardo: per l’infermiere Benigno il mai saputo e conosciuto genitale femminile, per il piccolo Salvador il visto e non visto, pre-sentito e sconosciuto fallo.
Ma è l’unico desiderio che si iscrive nella vita di Salvador/Pedro? La risposta è nelle parole del piccolo Salvador che nella scena della notte in stazione chiede alla madre se vi sarà il cinema a Paterna, dove stanno per trasferirsi. El cine es el según deseo. E la dimostrazione è nella magnifica dedica d’amore che Almodóvar conferisce all’ultimissima scena. In un inaspettato coup de théâtre, e in uno straordinario esempio di metacinematografia, scopriamo non solo che Salvador Mallo ha superato il suo intervento chirurgico, è uscito dalla depressione e ha ritrovato la sua vena creativa, ma scopriamo anche molto altro, che rimanda, forse, oltre che al metacinema, anche a suggestioni metateatrali, in senso pirandelliano: eravamo già parte della sua creazione artistica, in quanto partecipi, oltre che spettatori, del farsi del suo film.
Maggio 2019