Parole chiave: lutto, colpa, segreto, verità
Autore: Manuela Caslini
Titolo della serie: Disclaimer. La vita perfetta – Venezia 2024 – Fuori Concorso
Dati sulla serie: regia di Alfonso Cuarón, Regno Unito UK/USA, 2024, 7 episodi 329’, dal romanzo Disclaimer. La vita perfetta, di Renée Knight
Genere: thriller psicologico
Catherine Ravenscoft è una documentarista acclamata, premiata per le sue indagini sulle realtà più scomode. Suo marito Robert, galante e perbene, gestisce una holding garantendo la protezione della dubbia amministrazione di ong. Nicholas, il figlio che la detesta, è un giovane problematico, insicuro, disinteressato e difficile da raggiungere. Quando Catherine riceve un romanzo da un autore sconosciuto – un professore in pensione – inorridisce nel realizzare di essere la protagonista della storia narrata, che rischia di portare a galla segreti gelosamente custoditi per anni: il libro tocca il suo cuore più segreto, con un rischio percepito pari all’andare a smuovere il più maligno dei cancri, disseminandolo. Tra passato e presente si avviano tre linee narrative e molteplici punti di vista, in una vicenda per cui sarà necessario fare i conti con il passato, prima che questo polverizzi i rapporti familiari, la sua vita e lei stessa.
Cuarón, Leone d’Oro con Roma nel 2018, più che una serie, costruisce un film lungo sette capitoli – e diviso, per la presentazione mondiale, in due parti (EP 1-4 e EP 5-7) che si rivelano come un positivo e negativo fotografico – in cui ci porta al cuore intimo dei suoi personaggi. Voci fuori campo, di cui una si rivolge alla protagonista in seconda persona, ci aiutano ad addentrarci nel loro mondo interno – impaurito, rancoroso, svuotato, ferito, carismatico o senza qualità.
Una narrazione può avvicinarci alla verità, ma può essere anche un’arma di manipolazione e pregiudizio, magari a difesa e supporto delle convinzioni a cui per primi non possiamo rinunciare. Se la prima parte dell’opera parla delle narrazioni possibili e ci permette di sperimentare i loro effetti subdoli, la seconda parte, dopo un radicale cambio di registro, è una lezione magistrale sugli effetti e le insidie del trauma e su quanto esso comporta: l’annidarsi nei corpi e nelle ripetizioni, il trasmettersi nelle generazioni, con la necessità di silenziare e negare affinché tutto resti ‘apparentemente normale’, tenendo a bada colpa, umiliazione, vergogna, rinuncia.
Una verità perturbante e sempre dubbia, impossibile da guardare, raccontare, rinarrare, ma i personaggi si dividono tra chi non può che mistificare e chi è tormentato, zittito dal terrore o ne paga gli effetti, ma può essere in fondo disponibile di fronte all’occasione per liberarsi (‘è tempo che la mia voce venga ascoltata’, si dice, – ma per farlo, e per rimettere insieme i pezzi, delle storie e di sé, sappiamo bene che bisogna essere almeno in due). Il silenzio, piuttosto che proteggere, amplifica rabbia, distruttività e violenza, e nessuno sembra in grado di sostenere la verità: la differenza è tra chi la deforma e perverte, e chi cerca umanamente di affrontarla. Salvatori e carnefici coesistono articolando il dubbio, il dramma, e quel dolore che accomuna tutti.
In una sequenza di grande effetto, Cuarón mette in scena la disorganizzazione traumatica di una Catherine – oscura, carismatica e felina Blanchett – nello scolarsi convulso di una caraffa di caffè bollente raffreddato col ghiaccio: braccata fuori e dentro, qualcosa la spinge al tutto per tutto, pur di scongiurare il rimpianto di ciò che è già successo e che mai ha potuto perdonarsi.
Altri vertici di osservazione riguardano la forza della vendetta, la carica indomabile della passione, l’inaffrontabilità del lutto, la maternità e le sue insidie sacrificali o fusionali, e l’accettare di incontrare l’Altro – soprattutto i figli – per quello che sono e per quello che vivono senza farne orpelli narcisistici.
Dopo sei ore volate in Sala Grande col fiato corto e gli occhi incollati allo schermo, il pubblico si è sciolto in quindici oceanici minuti di applausi, grato per quello che il cinema ci invita a fare: attraversare esperienze (im)possibili, come l’elefante che cammina sull’acqua simbolo della mostra e, in aprés coup, guardare il mondo (e noi stessi) con occhi diversi.
Settembre 2024