Autore: Flora Piccinini
Titolo: “Climax”
Dati sul film: Regia di Gaspar Noé, Francia, 2018, 97’.
Genere: drammatico, thriller
Il film narra di un fatto di cronaca realmente accaduto nell’inverno del 1996, quando un gruppo di giovani dancer metropolitani si riunisce per una tre giorni di stage di danza in un collegio in disuso presso una zona isolata della Francia. Durante una serata qualcuno mescola una pesante dose di LSD nella sangria. Ne consegue una situazione in cui prevalgono il caos e una progressiva disorganizzazione psichica a livello sia collettivo che individuale. Un processo sommario del gruppo porta a gettare la colpa su di un giovane islamico e a buttarlo fuori senza alcuno scrupolo nella notte gelida della foresta innevata circostante, dove muore assiderato. Un bambino viene chiuso nella stanza della centralina elettrica. Si consumano violenze, abusi, scene di angoscia impensabile dei protagonisti in preda alle allucinazioni, in una notte che sembra non finire mai.
Gaspar Noé (autore del controverso e discusso “Irréversible” del 2002 con Monica Bellucci e Vincent Cassel)ha girato “Climax” in quindici giorni, partendo da una sceneggiatura di base scarna, sulla quale il cast, composto prevalentemente da ballerini e non da attori professionisti, ha dovuto improvvisare gran parte delle scene. In questa prospettiva non possiamo parlare di uno o più “protagonisti”: è il gruppo degli attori, as a whole, come un tutto, ad essere il protagonista. Prima di iniziare a girare Noé ha sottoposto i ballerini alla visione di molti video di persone sotto effetto di acidi, crack, ecstasy.
Anche la cornice di presentazione del film è sconvolta: i titoli di testa appaiono a metà della proiezione, alcune scene sono girate al contrario, l’effetto di eccitazione è già presente fin dalla prime scene di ballo, come se fin dall’inizio ci si trovasse al culmine di una stimolazione iper-eccitata e quindi di fatto non si potesse riconosce un vero e proprio climax sul piano dello sviluppo temporale delle sequenze.
Climax è un film di forte impatto: provoca angoscia, suscita reazioni di disagio nello spettatore, che difficilmente lo trova un film “bello”. Dal punto di vista estetico, tuttavia, va riconosciuta l’altissima qualità del linguaggio cinematografico usato da Gaspar Noé, che si muove magistralmente tra vari piani sequenza, inquadrature dall’alto ed un uso magistrale dei movimenti di macchina.
Lo spettatore può sentirsi portato dentro uno spazio scenico pressoché teatrale, così come esserne respinto e distanziato, seduto in una posizione scomoda sulla sua poltrona.
Il film va visto perché parla di una condizione esistenziale che ci attraversa tutti. Non è un film sulla droga né sulla condizione giovanile odierna, bensì sulla dimensione maniacale del “tempo” in cui ci accade di vivere, dove nella visione di Noé, da alcuni definita “nichilista”, il fatto stesso di vivere è qualcosa di impossibile, non può avere “luogo”.
La scelta del mondo della danza di derivazione techno porta sulla scena il movimento che sfida le dinamiche fisiche che intervengono nello spostamento dei corpi nello spazio. L’ambientazione sta dentro un mondo, quello della danza moderna, spinto dalla volontà di oltrepassare i limiti e di trovare un nuovo modo di rapporto con lo spazio e con il tempo.
La domanda che si pone lo psicoanalista visionando questo film è: chi ha messo la droga nella sangria? È la domanda che si fanno i ballerini di danza moderna che Noé porta sulla scena, ma è anche la domanda che ci pone il film e che resta aperta. Chi, e quando, ha alterato la nostra possibilità di pensare dentro a coordinate spazio-temporali definite? Chi e che cosa sta spingendo l’umanità verso una perdita dei confini e ad una dimensione caotica dell’organizzazione psichica, verso una disgregazione disumanizzante dei legami sociali e affettivi?
Nel film assistiamo ad una situazione di vuoto e rottura della catena delle generazioni sull’asse temporale: ci confrontiamo con l’assenza del Padre – si parla di un padre in coma – e uno dei protagonisti è chiamato “Daddy” e rappresenta la caricatura di tutto ciò che un padre non dovrebbe essere, in un estremo di aspetti trasgressivi e inaffidabili. Ma il gruppo si rivolge spesso a lui per avere risposte. I figli non possono nascere, sono abortiti, e l’unico bambino presente finisce murato dietro l’unica porta che si può chiudere con una chiave che viene persa, metafora della condizione di inaccessibilità della dimensione infantile e dei bisogni di tenerezza e dipendenza affettiva.
Anche il luogo dove si svolge l’azione è privo di confini al suo interno. Se è impossibile trovare uno spazio intimo e personale, tutto avviene dentro ad una dimensione gruppale che assomiglia più all’orda primordiale che ad un gruppo di individui distinti, e l’assenza di limiti finisce per trasformare lo spazio aperto in un claustrum invivibile.
La distesa bianca di gelo che circonda il collegio dove si svolge la vicenda ben rappresenta il vuoto, il blank di un lutto impossibile per l’esplosione di quei limiti umani dentro cui può aver luogo la vita e la sua pensabilità; limiti anche fisici, corporei, che i corpi dei ballerini non sembrano incontrare mai nel loro estremo dominio tecnico dei movimenti. “La serie ‘bianca’: allucinazione negativa, psicosi bianca o lutto bianco (tutti concetti relativi a quella che si potrebbe definire la patologia del vuoto, o patologia del negativo) sono il risultato di un disinvestimento massiccio che lascia delle tracce nell’inconscio sotto forma di ‘buchi psichici’, successivamente riempiti da reinvestimenti, come espressioni della distruttività così liberata da questo indebolimento dell’investimento libidico erotico.” (A. Green, 2005, p. 270)
La risposta ad un lutto impossibile non può che essere dunque quella di un’euforia malata, priva di qualunque piacere. Se tutto esplode, saltano i “garanti metapsichici” (Kaës, 2009) e saltano i contenitori che permettono la vita psichica. La vita avviene fuori dal Sé, in un non-luogo maniacale e allucinato, in cui nessuno si assume nessuna responsabilità
Ad un certo punto Noé fa comparire nel suo film alcune scritte sulla impossibilità della vita e sulla desiderabilità della morte. Sembra che in questo caso non si tratti della morte come del limite naturale dell’esistenza, ma piuttosto della non-vita, della distruzione del piacere di vivere e della dimensione umana della vita, inscrivibili all’interno di una dialettica tra aspetti soggettivi e collettivi della storia delle generazioni.
Riferimenti bibliografici
Bollas, C. (2018), L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, Milano, Raffaello Cortina, 2018.
Green, A. (1983), Narcisismo di vita. Narcisismo di morte, Roma, Borla, 2005.
Kaës, R. (2009), Le alleanze inconsce, Roma, Borla.
Moroni, A. A. (2019), Sul perturbante, Milano, Mimesis.
Ogden, T. H. (2016), Vite non vissute, Milano, Raffaello Cortina, 2016.
Dicembre 2019