UN ADOLESCENTE SI TOGLIE LA VITA.
COME SOPRAVVIVONO GENITORI, COETANEI, INSEGNANTI E TERAPEUTI?
Riflessioni a partire dal film Class Enemy di Rok Bicek, 2014
Proverò a rispondere a questa domanda, raccontando una storia personale.
Qualche anno fa ho vissuto un’esperienza umana e professionale molto intensa che mi ha fatto pensare, che tuttora mi accompagna e che vorrei, in parte, condividere come punto di partenza per queste riflessioni.
All’inizio di quella settimana di novembre sui giornali era apparsa la notizia del suicidio di un ragazzo di 16 anni, gettatosi da un grattacielo. L’evento, com’è ovvio, mi aveva colpito (forse lo conosco? no! chissà chi è? boh! perché l’ha fatto? chi lo sa!), anche perché aveva fatto seguito ad un episodio analogo accaduto due settimane prima in un altro paese. Non ci avevo più pensato, quando, dopo pochi giorni una collega mi ha chiesto se ero disposto ad andare nella classe che lui frequentava per un intervento (tecnicamente ha anche un nome: si chiama “postvention”) con i compagni sotto shock e sconvolti. Ho accettato, inizialmente per una sorta di spirito di servizio, in realtà anche incuriosito da un’esperienza per me nuova. Ero abbastanza emozionato quella mattina scura, scura, piovosa e nebbiosa. Credo che lo fossero altrettanto i ragazzi di quella classe. Il giorno prima c’erano stati i funerali del compagno. Una rosa rossa lasciata sul banco in prima fila ne ricordava a tutti la scomparsa e la mancanza. Rapidi convenevoli, qualche parola di introduzione, qualche domanda di rito e subito un attacco al cuore della mia stessa presenza lì: “Ma lei non pensa che queste cose ce le stiamo già chiedendo da una settimana a questa parte?”. Poi, gestito con un po’ di mestiere e un po’ di buon senso questo primo difficile contatto, sono cominciati i pianti a dirotto, le domande, le riflessioni, le disperazioni, anche qualche risata, le risposte affannosamente cercate dietro a ricordi, ipotesi, rifiuti, paure, fino a quel foglietto che riportava alcune parole dette dal compagno qualche mese prima (a posteriori profetiche ed insieme un po’ esplicative), timidamente, ma fiduciosamente portatomi dalla compagna più cara, quella che più faticosamente e con maggiore diffidenza mi aveva accolto. E’ spuntato anche il sole, dietro un incredibile squarcio d’azzurro nel cielo, alla fine di quella mattina. Eravamo riusciti a bucare quel cielo plumbeo, a vincere la lotta al silenzio, quello che spesso si stende a coprire gli avvenimenti più dolorosi e che ostacola pericolosamente il lavoro del lutto. Mi sono sembrati più sereni anche i ragazzi, per quanto fosse possibile, dopo il nostro incontro. A me invece, ora dopo ora, è sembrato che mi fosse stato caricato sulle spalle il mondo intero. Ero stato la spugna assorbente delle loro emozioni. Ho continuato per giorni a sentirmele dentro, ne ho parlato, cercando conforto e sostegno. Anche ora, sotto, sotto, credo di parlarne in parte anche per trovare un po’ di sollievo nella condivisione.
Il suicidio è la seconda causa di morte in adolescenza. Ufficialmente la prima sono gli incidenti stradali, anche se non potremo mai sapere con esattezza quanti suicidi (inconsapevoli o voluti) si celano dietro un motorino di cui si perde improvvisamente il controllo o che viene lanciato a folle corsa nella notte.
Il tentativo di suicidio è invece molto più frequente in adolescenza che in ogni altra fase della vita. E spesso un Tentativo di Suicidio sul quale non si interviene diventa il prodromo di un suicidio vero e proprio. Non avremo mai la risposta certa al perché un ragazzo si è suicidato. Infatti, la vera ragione, in genere, chi muore se la porta via con sé. Abbiamo allora la possibilità di cercare di capire qualcosa attraverso i segnali che lui ci lascia, o attraverso gli incontri con chi ha cercato di morire, ma non ci è riuscito.
Ma non è esattamente di questo che voglio parlare. Non mi interessa tanto, in questo momento, riflettere sulle ragioni e sulle motivazioni profonde del suicidio di un adolescente. Anche se credo che sia necessario mostrare la voce e la presenza di uno psicoanalista (o una psicologa in quel caso) un po’ differente da quello che viene rappresentato nel film.
Mi interessa invece condividere una ipotesi e una riflessione. Anche se il regista non approfondisce questo aspetto nel suo racconto, anzi, forse, lo lascia volutamente in sospeso, mi sembra che la storia narrata nel film ci faccia prendere in considerazione l’evoluzione che può avere una difficile, precipitosa o mancata elaborazione di un lutto. Il film mostra, infatti, due vicende luttuose entrambe traumatiche. La morte della mamma di uno studente e il suicidio della compagna. Una mia ipotesi è quella che l’impossibilità a prendere contatto con gli aspetti più dolorosi della perdita, quindi con la tristezza e la fisiologica depressione che ne consegue, lascino spazio a una rabbia incontrollata e ingestibile. La classe come ben vediamo si ribella, ma è una ribellione cieca alla “tutti contro tutti”, nella quale è difficile trovare dei lumi di ragione se non quelli dell’odio.
In questo senso penso che il film, toccante e profonda opera cinematografica, possa essere uno strumento di riflessione e di condivisione, utile a evitare pericolose scorciatoie o semplificazioni. È indubbio, come tutti ben sanno, che la rabbia, soggettivamente, è ben più vivificante della depressione. Il problema è che spesso, nella sua apparente e definitiva soluzione, lascia in sospeso e scoperte dolorosissime ferite. Il nostro compito è cercare di aiutare le persona ad andare oltre la rabbia.
Ottobre 2014