Cultura e Società

“Campo di battaglia” di G. Amelio. Recensione di R. Valdrè

11/09/24
"Campo di battaglia" di G. Amelio. Recensione di R. Valdrè

Parole chiave: guerra, autolesionismo, etica, civiltà

Autore: Rossella Valdrè

Titolo: “Campo di battaglia”

Dati sul film: Regia di Gianni Amelio, Italia, 2024

Genere: drammatico

Friuli-Venezia Giulia, 1918. La Grande Guerra è agli sgoccioli e il Paese, come in tutte le guerre ma in questa con particolare ferocia e desolazione, è allo stremo.

Due giovani ufficiali medici, Stefano (Gabriel Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi), devono curare una moltitudine di giovani soldati feriti, quelli che passeranno alla storia come “i ragazzi del ‘99”, diciottenni nati nel 1899, di prima leva, chiamati a rinsaldare le file dello stremato esercito italiano.

Ignari, quasi sempre analfabeti delle campagne, questi giovani partirono perché si doveva, molti morirono al fronte, altri tornarono mutilati; certamente, con i carenti mezzi di comunicazione dell’epoca, le loro storie sono ad oggi abbastanza sconosciute. A complicare e, in qualche modo, anche accelerare la fine del conflitto, la terribile epidemia di “spagnola” che portò a morte milioni di persone nel mondo e, in Italia, si calcola 600.000.

Questo è il panorama di Campo di battaglia, ultimo film di Gianni Amelio presentato in concorso alla 81° Mostra del Cinema di Venezia (dove fu vincitore del Nastro D’Argento nel ’94 con Lamerica); film intensamente drammatico, a tratti (soprattutto nella bellissima prima parte) autenticamente commovente, del tutto coerente con la precedente filmografia del regista. Figlio lui stesso di emigrati, il cinema di Amelio ha sempre raccontato gli ultimi, gli immigrati, coloro che non hanno voce, vittime delle distorsioni della Storia. I dimenticati di ogni guerra.

Il vero Campo di battaglia del film è quello tra due etiche, potremmo dire, tra due visioni della guerra e quindi del mondo. I due giovani medici, amici fin dall’Università, uniti da un sottile e intimamente contrastato legame d’affetto e stima, rappresentano due visioni del conflitto mondiale antitetiche: Stefano, costretto a fare il medico dal padre e figlio della grande borghesia, crede che si debba vincere, farsi onore, odia i mille poveri disertori che affollano l’ospedale, che si procurano autolesioni per non andare al fronte, è  convinto che debbano essere perseguiti e allontanati, persino condannati a morte. Crede nella guerra, nella Grande Guerra, nella Patria, nell’onore.

Giulio incarna invece l’etica opposta di chi, di fronte all’insensatezza crudele della guerra, si oppone facendo sì che i giovani soldati possano tornare a casa, procurando loro delle finte malattie per essere riformati. Di aspirazione biologo, ma poi costretto a fare l’ufficiale medico, Giulio disprezza la retorica bellica, diventa “la mano santa” per come tenta di aiutare i soldati, e ne farà lui stesso le spese.

All’ospedale si unisce Anna, costretta a portare le vesti di infermiera perché non ancora accettate, al tempo, le donne medico (solo un bambino la chiamerà “dottora”). Lo sguardo di Anna, affettuosamente legata ad entrambi, non sembra sposare una posizione privilegiata, se non quella di una profonda e autentica pietas verso l’umanità che ha di fronte.

Se sono note le vicende e i panorami della Grande Guerra, anche grazie al cinema che ne impedisce il totale oblio nell’immaginario collettivo, meno noto è il cuore tematico del conflitto tra i due medici: come comportarsi di fronte all’autolesionismo per smettere di combattere? Assecondarlo, come unico disperato mezzo per tornare a casa, pur mutilati, sordi o ciechi per sempre, oppure condannarlo, persino con la morte, in quanto vigliacca debolezza? Le scene iniziali nell’ospedale tra i feriti non lascerebbero dubbi. Quella che il film ci consente di scoprire è un’umanità straziata, una generazione perduta, ingenua e inconsapevole, povera e contadina, disposta a perdere gambe e braccia, vista e udito, pur di non tornare a combattere. Non si tratta, si badi bene, dell’autolesionismo, del self cutting degli adolescenti contemporanei, che si procurano lesioni  per (più spesso inconscie) ragioni varie, come il by-passare le emozioni, la ricerca di attenzione, la sensazione di sentirsi vivi che la mente non riesce a sperimentare, e via dicendo; no, i soldati sono disposti a tornare a casa storpi pur di tornare a casa.

E’ chiaro che i film sulla guerra sono sempre contro la guerra, qualsiasi guerra. Ciascun regista però, nella grande libertà dell’estetica cinematografica, declina questa denuncia in toni personali e diversi.

Il film di Amelio ha il merito di immettere lo spettatore di oggi all’interno di un conflitto morale senza tempo: è giusta o no la guerra per salvare i propri confini? Fin dove può arrivare l’autolesionismo umano? Perché a pagare il prezzo sono sempre i più poveri, i senza scelta?

Evidenti i riferimenti alla recente pandemia da Covid che, come la “spagnola”, non guarda in faccia nessuno (emblematica la scena dei carri carichi di morti come a Bergamo), e alle guerre contemporanee di cui, nell’attualità, si sa sempre troppo poco.

Particolarmente apprezzabile l’assenza di manicheismo; pur conducendo lo spettatore a sapere dove sta il Bene (o perlomeno dove non sta il Male), i due personaggi di Stefano e Giulio non si riducono a buono e cattivo, ma sono entrambi dotati di integrità e dignità, nessuno dei due abita la propria causa per interesse: entrambi vi credono con passione. Più schiacciato da un edipo rabbioso Stefano, più idealista Giulio, incarnano due soggettività pienamente umane. Il nemico (“i crucchi”), non appare mai: il nemico è la guerra in sé. La sua totale crudeltà, la sua insensatezza, la sua cecità, la sua ripetitività, la sua passione per la morte. La guerra scava disuguaglianze, conduce gli uomini alla follia; e tuttavia, la guerra continua ad esistere.

Solo tre anni prima, nel 1915, è noto che Freud fu disilluso spettatore della tragedia, quando scrive:

“Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato così profonda confusione nelle più chiare intelligenze, abbassato tanto radicalmente tutto ciò che è elevato”. (1915, 35)

Ancora una volta il cinema si fa maestro di Storia e, fedele alla lezione del nostro Neorealismo (tanto apprezzato da Amelio) e della commedia all’italiana (La grande guerra di Monicelli, del ’59), smonta tutta la retorica di ‘vittoria’ che aveva circondato questo massacro.

Peccato che il pubblico internazionale perderà uno degli aspetti più riuscit di Campo di battaglia: i dialetti, le molte lingue diverse che s’intendono per necessità ma non si capiscono, e che tuttavia rappresentano una variegata e insieme povera “lingua parlata della realtà” in cui certamente, per Amelio che ne è da sempre grande ammiratore, non si può non rintracciare l’impronta del Pasolini friulano. Il quale ebbe a dire, sull’uso del dialetto:

“La preminenza del suono sul concetto è assoluta. È un linguaggio che non vuole dire, bensì evocare, sognare”. (Pasolini, Poesie a Casarsa, 1942)

Bibliografia

Freud S. (2015): Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte. OSF, 8

Pasolini P.P. Poesie a Casarsa, in: Santato G. (2013): Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, saggistica, teatrale, cinematografica. Carrocci, Roma

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