Woody Allen, USA, 2013, 98 min
Commento di Rossella Valdrè
“Strappa all’uomo comune le illusioni e con lo stesso colpo gli strappi anche la felicità“
(E. Ibsen)
Il prestigioso “Time out” newyorkese raramente, all’uscita in agosto, destina cinque stelle a un film: Blu Jasmine è uno di questi. Pur consapevole dell’amore e della conoscenza profonda che mi lega alla filmografia (o meglio direi, alla poetica) di Woody Allen, non credo di peccare di parzialità nel definire con Time Out quest’ultima opera dell’ormai ottantenne Woody uno dei suoi lavori più maturi, più intensi e perfetti. Allen accoglie qui una tematica sociale a lui nuova, il crollo di uno dei molti imperi finanziari costruiti su carta e menzogne che hanno rapidamente visto ascesa e declino di tanti finanzieri truffaldini o supposti tali, declinandola quasi esclusivamente nel dramma di una donna, la moglie Jasmine, personaggio assolutamente centrale e splendidamente interpretato da Cate Blanchett. Un tema sociale tipicamente post-moderno, iniziato negli Stati Uniti e poi dilagato ovunque, si trasforma in una moderna “Casa di bambola” (questa la mia prima associazione, e Allen è da sempre grande ammiratore della cultura nordeuropea), ritratto femminile eterno, segnato dal dolore e dallo smarrimento senza rimedio. Da sempre assestata su una fragile identità (lascia gli studi, è figlia adottiva, cambia il suo nome Janet in Jasmine quando si sposa…) Janet-Jasmine sposa appunto un principe azzurro che la fa vivere, quasi immemore di tutto, nella casa di bambola del lusso di Park Avenue, della villa a Long Island, le feste, i viaggi in Europa, gioielli e abiti firmati… consentendole di perpetrare la continua e velata negazione dei conflitti che pure sembrano premere dal profondo di Jasmine, e che non trovano altro spazio per farsi strada che attraverso le crepe del sintomo: continui attacchi d’ansia, panico, farmaci, cocktail per sedarsi…
Ma la negazione, fino a un certo punto, prevale: come lasciare quel mondo di balocchi, per lei ex bambina povera, segnata dal rapporto conflittuale con una sorella di cui si vergogna, grossolana commessa in un supermercato che ha sempre evitato, ricordandole il dolore delle origini? Sarà proprio dalla sorella a San Francisco, però, che Jasmine cerca rifugio quando inevitabilmente il castello di carte crolla: il marito viene smascherato per il grande truffatore qual è e, arrestato, non reggendo l’umiliazione e il crollo identitario, si suicida. Il figlio si rifà una vita modesta, ma dignitosa altrove, e Jasmine, che non è mai stata nessuno se non la moglie-di, perde improvvisamente non solo lo status sociale, le case, i denari, ma quel pur fragile assetto identitario costruito intorno alla negazione. L’impatto con la realtà le è insostenibile: parla da sola, mescola lo ieri con l’oggi, e l’interessante rincontro con la sorella (che è l’altro polo tematico del film tanto che alcuni critici l’hanno avvicinato, a mio avviso fuori luogo, alla Blanche di “Un tram che si chiama desiderio”, nelle vesti dell’ottima attrice inglese Sally Hawkings) sembra muovere più nell’altra un qualche riassetto esistenziale, che non in Jasmine che resta invece ancora più smarrita, anonima, in una panchina a borbottare al vuoto il suo non sapere più chi è…
“…ma ora sono rimasta sola al mondo, con l’anima orrendamente vuota”
(Ibsen, Casa di bambola, 1879)
Sia si ami l’Autore, come me, senza riserve, sia che no, Blu Jasmine è un film assoluto, uno dei ritratti femminili più struggenti, empatici e intensi che la filmografia contemporanea (erede ancora in Allen di una certa eco bergamaniana, oggi rara nel cinema) ci abbia regalato, e che nella carriera di Allen è rintracciabile, tra gli altri, forse soprattutto in Un’altra donna (con Gena Rowlands) altro dramma borghese della menzogna e dell’inganno dove mancava, però, la cifra che preferisco definire poetica, più che clinica, del confine sottile con la follia quando “i traumi che una persona deve sopportare sono troppi” – come dirà Jasmine – mentre la protagonista di Un’altra donna era costretta, sì, a riassestare tutta la sua vita, ma poggiando su una ben precisa soggettività (altro personaggio con qualche nota simile, ma sul versante fiabesco – commedia, fu quello della vanesia Alice del ’90, con Mia Farrow). Ciò che incanta e strugge in Jasmine, è una vita psichica nella quale, credo, purtroppo ancora molte donne, molte Dore moderne si possono ritrovare: non essere nessuno, se non quello che l’altro propone e regala. Ma, perduto o sottratto quel regalo, l’essere torna nudo, svuotato di senso, condannato alla sua irriducibile non esistenza. Rivivere l’eterna nostalgia di un idillio in realtà mai vissuto, quella melodica Blue Moon, canzone del ’37, sulle cui note lei e il marito si erano incontrati, questo è il sé di Jasmine: la ricerca vana di un mondo perduto per sempre, ma in realtà mai posseduto, e perciò desiderato con uno strazio che non si placa mai, che non conosce oggetti che possano davvero appagare e dare senso.
Non è peraltro nuova, nelle tematiche di Allen, anche la perdita di quel po’ d’illusioni di cui l’essere umano ha bisogno per restare vivo, è anzi filo che percorre, ora nella commedia ora nel drammatico, ogni sua opera, ma che qui tocca il suo apice narrativo. Che cosa siamo, infine, cosa ne è dei più fragili di noi, senza il balsamo dell’illusione (o, diremmo noi) di un po’ di negazione?
E’, infatti, l’impero della negazione, lo stile difensivo che anima ogni atto di Jasmine e fornisce la prevalente, non certamente esaustiva, costellazione di base della sua vita psichica. Jasmine è intelligente, sensibile, avrebbe gusto per la cultura, stile, ma tutto è lasciato cadere, come a metà, in una sorta di flebile rinuncia marcata da un debole narcisismo (gli studi universitari), sempre pronta a verniciare il reale per terrore della Verità, così da mentire a se stessa (che intuiva i plurimi inganni del marito) e da mentire all’unico nuovo incontro che potrebbe riaprirle una speranza, ma collocato nuovamente nel registro della favola dove la Verità non deve entrare (un altro uomo ricco che, una volta scoperto il suo passato, la abbandona).
Come affrontare la verità – come sostenere K, nella lingua di Bion – se non c’è un Sè che la sostenga? Un sé così deficitario non sembra realizzare nemmeno un falso sé, o una personalità compiacente: no, il dramma di Jasmine è ancora più antico, più alla base, sembra non essersi mai formato quel nocciolo di noi che chiamiamo Io, per cui la perdita da un giorno all’altro di status, se drammatica per tutti, diventa per Jasmine o, ottimisticamente, la porta per un nuovo inizio, o il docile ingresso verso la follia….Gli ultimi minuti che la vedono disfatta e sola, perduta nel suo mondo, puerilmente sempre mascherata nei suoi giacchini Chanel e nel filo di perle, costituiscono a mio avviso, non mi resta che ripetermi, uno dei ritratti più belli, contemporanei ma universali, di un femminile che, se segnato da quella certa cifra difensiva negatoria, è condannato alla casa di bambola, o alla follia. Si potrebbe obiettare: e il maschile no? Il crollo identitario non riguarda forse le persone, e non i sessi, tanto che non si contano i suicidi in questi casi, come quello dello stesso marito? Vero: ma questo sarebbe un altro film. Credo che volutamente Allen lasci sullo sfondo, rievocato solo nei flash, la figura del marito (e degli altri uomini in genere definiti “sfigati”), e sembra collocare nella scelta suicidiaria una pur qualche scelta, una pur qualche soluzione. Il riflettore si concentra esclusivamente su Jasmine e sulla sua assenza di scelta: questo ne fa un personaggio tragico ed emblematico. Essa è il nulla, incapace anche di suicidarsi; essa è il puro smarrimento, la pura confusione. “Sono sottosopra…” è tutto ciò che riesce dire alla fine, accomiatandosi da noi, pallida barbona in Chanel con lo sguardo perso nel nulla….
“….non sento che un vuoto indicibile. Più nessuno a cui consacrare la mia vita…”.
(E. Ibsen, Casa di bambola)
dicembre 2013