Parole chiave: lutto, ideali, compromesso storico, comunismo, Psicoanalisi.
Autrice: Rossella Valdrè
Titolo del film: “Berlinguer. La grande ambizione”
Dati sul film: regia di Andrea Segre, Italia, 2024, 122’
Genere: drammatico, biografico, storico
“Non può essere libero un popolo che opprime un altro popolo, scriveva Marx.
E potremmo parafrasare così quella affermazione:
non può essere libero un uomo che opprime una donna.”
(Enrico Berlinguer, discorso a Piazza Siena, 1979)
Si sentiva il bisogno, nel cinema italiano, di un film su Enrico Berlinguer.
Dopo alcuni buoni film documentari (Quando c’era Berlinguer di Walter Veltroni del 2014 e, soprattutto, Prima della fine. Gli ultimi giorni di Berlinguer di Samuele Rossi del 2024), a quarant’anni dalla morte del grande leader di quello che fu il più importante Partito Comunista d’Europa, l’opera di Segre riesce a restituirne un ritratto singolare e corale insieme, meticoloso e sofferto.
Il film abbraccia gli anni dalla crisi di Allende in Chile, che vede Berlinguer sfuggire fortuitamente ad un attentato in Bulgaria nel 1973, fino alla morte avvenuta prematuramente e del tutto inattesa a sessantadue anni nell’84. Eventi straordinariamente importanti si srotolano sotto gli occhi dello spettatore in quei pochi, cruciali anni: la presa di distanza da Mosca, le lotte sindacali e studentesche, il referendum sul divorzio, la strage di Brescia, l’attentato a Coco a Genova: Berlinguer è impegnato da un lato sul fronte della modernizzazione interna del suo partito, che con mossa da grande visionario politico ha sottratto alla trappola dittatoriale di Mosca, e dall’altro la sua attenzione è rivolta al Paese. Comprende che per rafforzare la via democratica al socialismo occorre allearsi con le forze popolari antifasciste e cattoliche, l’anima migliore del Paese, l’anima dei lavoratori, di chi ha fatto la Resistenza: questa “grande ambizione” prese il nome di compromesso storico.
A condividere questa ampia visione, un altro uomo lo ascolta nelle stanze del potere: è il democristiano Aldo Moro, dapprima in ombra, silenzioso. Ne condivide rigore, idealismo, serietà. Nella seconda parte del film, con la necessaria mediazione di Andreotti e con la prudenza che lo contraddistingueva, i due si avvicinano. La scena li vede quasi intimiditi, grandi statisti capaci di vedere lontano, simmetrici nelle loro solitudini, accanto a una scacchiera: avrebbero saputo fare le mosse giuste. Ma sappiamo come è andata.
Elio Germano, che ha vinto il premio come miglior attore alla 19° Festa del Cinema di Roma, veste perfettamente, con calda e mai enfatica partecipazione i panni, oramai iconici, almeno per la mia generazione, di un uomo sobrio, colto e amato anche da chi non la pensava come lui. Una caratteristica, questa, che non si ritroverà nelle generazioni di politici successivi, bisognosi solo del totale rispecchiamento. Nonostante il richiamo al collettivismo, il non pronunciare mai la parola “io”, il fascino di Berlinguer appare immutato ieri come oggi: Germano sa restituirgli il giusto mix di forza e timidezza, ingobbito in quei completi larghi e sempre uguali, un uomo piccolo che parlava con curioso accento sardo e incantava le masse, non per incitarle all’odio né contro il nemico, ma verso la lotta per i loro diritti e per le loro libertà di esseri umani, essendo una soltanto la libertà da evitare: quella “di sfruttare l’uomo per l’uomo”.
Berlinguer, studioso di Gramsci, aveva compreso in anticipo la crisi del capitalismo e l’erosione di vera libertà che questo avrebbe provocato, creando falsi bisogni e nuove violenze per soddisfarli.
La scelta del regista è di eleggere, in fondo, due protagonisti: con la morte di Aldo Moro, muore anche Berlinguer. È la tragica fine, irreparabile, della “grande ambizione”. Il film si sarebbe potuto intitolare anche la “grande illusione”, alla quale però milioni di persone in questo Paese hanno sinceramente creduto, e il suo crollo è stato un lutto per molti. Non tutti i lutti sono consolabili; alcuni sono insanabili e questo, nella storia italiana, ha lasciato una ferita ancora aperta.
Berlinguer era un vero leader, l’unico, in grado di incarnare la “grande ambizione”. Dalla sua parte aveva il rapporto con gli elettori ma, venendo meno in Moro l’alleato parlamentare, il grande progetto che avrebbe cambiato questo sventurato Paese non si realizzò mai.
Certo, la materia è complessa, si presta al dibattito, e Segre la maneggia con cura. Ci restituisce l’uomo pubblico e privato con delicatezza, il padre affettuoso, l’intensità della vita politica di partito, la solitudine pensosa delle scelte, l’amarezza, le magnifiche sequenze di popolo, con Berlinguer di spalle, quelle spalle un po’ sbilenche che hanno le persone magre che non fanno ginnastica come si usa oggi, ma si accontentano di qualche flessione in camera da letto in pantaloni e canottiera.
Gli anni ’70: non manca mai un po’ di nostalgia per quegli anni pieni di idee, lotte, stanze piene di fumo.
Novembre 2024