Autore: Elisabetta Marchiori
Titolo: “All the beauty and the bloodshed” (“Tutta la bellezza e lo spargimento di sangue”)
Dati sul film: regia di Laura Poitras, USA, 2022, 117′, Leone d’Oro 79 Mostra d’arte Cinematografica di Venezia
Genere: documentario
“Fare una foto è un modo per toccare qualcuno, è una carezza”
(Nan Goldin)
Il Leone d’Oro della 79 Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è stato attribuito al film “All the beauty and the bloodshed” (“Tutta la bellezza e lo spargimento di sangue”) di Laura Poitrais. Una scelta originale e affatto scontata, che ha colto molti di sorpresa, ed è anche il terzo consecutivo a una donna, dopo Chloé Zhao per “Nomadland” nel 2020 e Audrey Diwan per “La scelta di Anne” nel 2021.
Si tratta di un documentario dalla struttura classica, ma molto potente, sulla storia dell’artista, fotografa e attivista di fama internazionale Nan Goldin, che ha avuto il dono, o la condanna, di essere dotata di una sensibilità in grado di cogliere tutta la meraviglia e l’orrore del mondo intorno a sè. Poitrais ha ricevuto il premio Oscar 2015 per il documentario “Citizenfour” su Edward Snowden; il suo ultimo film “Terror contagion” fa parte dell’antologia “Year of the everlastyng storm” prodotta da Jafar Panahi. È anche a lui, Maestro del cinema iraniano attualmente in carcere, in Concorso con il suo “No bears”, che Poitrais dedica il premio, augurandosi che si faccia tutto il possibile per liberare gli artisti imprigionati dai regimi nel mondo. Non a caso, visto che i temi trattati coraggiosamente da Portrais sono sempre scottanti, tanto da essere diventata una sorta di “sorvegliata speciale” per il governo statunitense.
“All the Beauty and the Bloodshed”, di cui la protagonista è anche co-produttrice, procede nell’alternanza di tre filoni narrativi. Il primo è il racconto di Goldin come attivista contro la famiglia Sackler, padrona della casa farmaceutica Pordue Pharma, produttrice dell’ossicodone e responsabile di una gigantesca epidemia di dipendenza e più di 400.000 morti per overdose, tra cui anche bambini, ed è girato come un reportage giornalistico. Il secondo si dipana come la narrazione dei momenti salienti della vita di Goldin, del suo divenire la persona e l’artista che ora è, e va a dipingere un suo ritratto intimo, il più autentico possibile. Il terzo è il quadro della generazione nella quale ha preso forma la dimensione artistica di Goldin, a cui si deve la cultura underground della New York degli anni ’70 e ’80. Questi ultimi si dipanano, con la colonna sonora del dei Velvet Underground – le cui canzoni cantano quelle stesse realtà sotterranee e selvagge della che Goldin ritrae – proprio attraverso gli scatti fotografici dell’artista, attimi di vita colti nella quotidianità di esistenze “al limite”, autoritratti e ritratti delle persone più importanti della sua esistenza, prima fra tutti l’amata sorella Barbara. Era una ragazza ribelle, bollata come “malata di mente”, ricoverata in un manicomio e morta suicida a diciotto anni, quando Nan ne aveva undici, ricordata come l’unica persona che si sia in qualche modo presa cura amorevolmente di lei durante l’infanzia. La vita e le opere di Goldin sono state marchiate in modo indelebile da quel terribile lutto. La famiglia, tanto disfunzionale da farsi imporre, da parte dei servizi sociali, l’allontanamento di Nan per evitare facesse la stessa fine della sorella, ha sempre negato l’accaduto, obbligando a considerarlo un “incidente” e sollevandosi da qualsiasi responsabilità. Questo evento, che porta Nan ad essere data in affidamento, la segna tanto traumaticamente da portarla ad affermare, nell’incipit del film, che i ricordi si imprimono nel corpo e lo segnano per sempre; i ricordi hanno odore – dice – e questo odore lo spettatore quasi riesce a percepirlo. Sono immagini di corpi e volti che diventano “incarnazioni”: le vediamo scorrere davanti ai nostri occhi in slide show, come quadri che non si possono dimenticare. Sono foto tratte dalle sue opere, tra cui “The ballad of sexual dependency” (1980-1986) e “Witnesess: against our vanishing” prima mostra fotografica sull’AIDS del 1986, in cui documenta se stessa e le persone a lei più vicine, amici e artisti, appartenenti soprattutto alla comunità LGBTQ+, con i quali ha ricostruito la famiglia di cui aveva bisogno. La voce narrante dell’autrice racconta la discesa agli inferi che è stata la sua esistenza, in fuga anche dalla famiglia affidataria, espulsa dalle scuole, tra uso di droghe, prostituzione, maltrattamenti e violenza fisica e che si è trasformata in un’ascesa all’olimpo degli artisti. Cade vittima anche della dipendenza dall’ossicodone e per questo fonda P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now), che riesce a danneggiare la reputazione della famiglia Sackler fino a far rimuovere il nome da gallerie d’arte come ì il Tate a Londra, il Metropolitan Museum in NY, il Louvre a Parigi, e rifiutare le donazioni. L’arte, la bellezza, non può essere sovvenzionata da soldi imbrattati di sangue!
Tuttavia i passaggi tra i registri risultano talvolta forzati e, più che intrecciarsi, sembrano scorrere in parallelo, cosicché lo spettatore ha la sensazione di avere a che fare con aspetti dissociati della protagonista, che non riescono ad integrarsi.
In particolare l’enfasi posta sulla vicenda Pordue Pharma distoglie lo spettatore da quello che è il cuore pulsante del film, ovvero la ricerca dell’identità della protagonista attraverso la ribellione, della bellezza attraverso la sofferenza, della fotografia come unica arma per contrastare il senso di perdita e tenere con sé le persone amate rendendole immortali attraverso le foto: immortalandole appunto.
Il bisogno di distruggere la famiglia Sackler sembra corrispondere a una vendetta inconscia contro la propria famiglia che aveva negato il suicidio di Barbara e si era rifiutata di assumersi qualsiasi responsabilità a riguardo, proprio come i Sackler hanno negato le morti causate dall’ossicodone e si sono sempre dichiarati non colpevoli. Lo slogan “Sacklers lie people die” urlato a gran voce durante le manifestazioni non si potrebbe mutuare con: “I genitori mentono, i figli muoiono”?
Mi sono chiesta cosa abbia portato la giuria, capeggiata di Julianne Moore, a scegliere di premiare questo film, che riporta in luce un pezzo di storia dell’America ed è poco contestualizzabile per un pubblico europeo. Forse perchè in questo film si trovano tutti i principali temi trattati dalle opere viste in questa edizione, molte delle quali dichiaratamente autobiografiche: la ricerca dell’identità in primis, gli eventi traumatici — personali e socio-politici — l’emarginazione, la crudeltà, la giustizia?
O forse semplicemente perché è un film sulla vittoria della bellezza, della creatività e della vita sugli spargimenti di sangue, la distruttività e la morte. Sempre e per sempre la lotta tra Eros e Thanatos.
Settembre 2022