Parole chiave: claustrofobia, materno, soggettivazione.
Autore: Filippo Barosi
Titolo del film: “Beau ha paura”
Dati sul film: regia di Ari Aster, USA/Canada/Finlandia, 179′
Genere: horror/grottesco
Al suo terzo lungometraggio, dopo il credito ottenuto con gli ottimi “Hereditary” (2018) e “Midsommar” (2019), Ari Aster lascia l’horror più convenzionale e si tuffa in un bizzarro ibrido con spunti autoriali incentrato sul rapporto madre-figlio.
Beau, interpretato dal solito enorme e fragilissimo Joaquin Phoenix, è un uomo di mezza età che ha non-vissuto una vita assediato dalle paure e dell’incapacità di assumersi la responsabilità di una qualsivoglia forma di soggettività.
Fin da piccolo è stato oggetto dell’”immenso amore” di una madre perversa che lo ha dominato e legato a sé, con maestria e mortifera ambiguità.
Quando Beau deve raggiungere la madre per il suo compleanno, “perde” le chiavi di casa, lasciando la porta spalancata e l’appartamento alla mercé dei ceffi che bazzicano il suo squallido quartiere. Costretto a rimanere, Beau perde l’aereo che avrebbe dovuto portarlo dalla madre. L’agghiacciante telefonata che ne seguirà darà il via alla personale odissea del protagonista attraverso la sua angoscia di annientamento all’idea di avere davvero distrutto la madre e infine se stesso.
“Beau is afraid” è un film esagerato, saturo e talvolta didascalico come il suo titolo, pur compensato dalle soluzioni creative del regista-sceneggiatore che, senza quasi mai usare le figure tipiche del film di genere, riesce a tenere viva la tensione per buona parte del tempo. Un film esagerato anche nelle sue tre ore di durata, tanto da lasciar pensare a come il regista stesso abbia voluto imporre sadicamente la visione allo spettatore nello stesso modo con il quale la mostruosa madre di Beau si impone, fin dal primo vagito, senza lasciare tregua al figlio.
Il film è diviso implicitamente in capitoli/sogni concatenati dove le paure infantili del protagonista vengono giocate da personaggi tanto esasperati da risultare talvolta perfino ridicoli.
La persecutorietà che bracca il protagonista per tutto il film, costantemente in bilico tra sogno e veglia, assume sia forme più primitive e aggressive che forme pervertite legate all’ipercura e all’intrappolamento. Beau passa da incubi allucinati a sogni claustrofobici e lo fa trasmettendo costantemente la sensazione di esserne in balia. L’aggressività viene sempre giocata fuori da lui, al punto da trasmettere allo spettatore non solo la compassione per una vita tanto sofferta ma anche la rabbia e la pena per la sua totale incapacità di reazione.
Verrebbe insomma da chiedere a gran voce a Beau di assumersi quella responsabilità su se stesso della quale è stato però privato fin dalla radice da un oggetto materno totalizzante e sadico. Il film mostra bene quanto in queste situazioni sia la verità soggettiva dell’individuo a essere infestata e distorta, e con essa la capacità di base di discernere tra vero e falso, tra incubi e realtà, cosa che potrà risultare indigeribile allo spettatore incapace di sospenderne il giudizio.
Se il terzo separatore viene a mancare, e nel film questo assume la forma di una terrificante maledizione di castrazione, se si impedisce la formazione di un proprio spazio intimo con effrazioni e colonizzazioni permanenti e la mente del bambino diventa un feudo dell’onnipotenza materna, la porta rimane sempre aperta e la minaccia esistenziale diventa uno stridore costante.
Proprio nel momento in cui Beau sceglie di perdere l’aereo, pur demandandone la responsabilità all’inconscio, e quindi tenta una differenziazione dal legame materno, si scatena contro di lui la più potente delle ritorsioni. Ma, benché la madre si presti oggettivamente al ruolo, è il suo psichismo a collassare dall’interno, perché è proprio su quella madre che appoggia, per quanto folle e crudele possa essere.
La scena finale, che non posso spoilerare ma che segue alla più grave delle infrazioni secondo il perverso codice materno, è in questo senso una sentenza definitiva: non c’è via di fuga se la Madre è l’unico mondo possibile. Sappiamo con quanta delicatezza vadano trattati in studio intrecci tanto profondi, con la cautela e la visione richiesta dal gioco del mikado, proprio perché la paura paralizzante diventa una difesa estrema dall’annichilimento. E proprio nell’istante in cui Beau non ha più paura…
…Per ultimo rimane il sollievo che sia finito tutto, quando ci si alza dalla poltrona un po’ straniti come dopo una seduta d’analisi particolarmente intensa, stropicciando gli occhi con lo sguardo ancora rivolto per metà fuori e per metà dentro, e, liberi di andare, possiamo pensare a quanto la capacità di dormire un sonno pieno e di sognare davvero sia una capacità essenziale per la nostra sopravvivenza psichica. È successo a Beau, non a noi.