Cultura e Società

“Baby Reindeer” di W. Tofilska e J. Bornebusch. Recensione di F. Barosi

15/05/24
"Baby Reindeer" di W. Tofilska e J. Bornebusch. Recensione di F. Barosi

Parole chiave: Dipendenza, narcisismo, stalking, perversione, trauma 

Autore: Filippo Barosi

Titolo: “Baby Reindeer” (Piccola renna)

Dati sulla serie: regia di Weronika Tofilska e Josephine Bornebusch, ideato e sceneggiato da Richard Gadd, Gran Bretagna, 2024, Netflix.

Genere: drammatico

Tutto comincia con un atto di gentilezza.

A mente fredda, è forse questo l’elemento più inquietante di “Baby Reindeer”, una serie Netflix che ce la mette tutta per angosciare e lasciare un segno profondo nello spettatore. Scritta e interpretata da Richard Gadd, comico scozzese trentacinquenne, è il racconto-confessione della sua storia di vittima di stalking[1].

Eppure, per quanto questo sia il cardine attorno al quale girano i sette episodi in cui si articola la narrazione, essa affronta temi più vasti e lo fa con una complessità e una schiettezza rare. Per questo motivo, lettore avvisato, non potrò evitare qualche spoiler, pur camuffato.
Gadd, nei panni del suo alter ego Donnie Dunn, arriva a Londra con la speranza di diventare stand up comedian. Come molti aspiranti al mondo dello spettacolo, lavora in un pub per mantenersi e lì una sera conosce Martha, una donna sola che racconta di essere un’importante avvocatessa, ma che, caso strano, non ha con sé i soldi nemmeno per un tè. Intenerito, Donnie la ascolta e le offre da bere. Da lì in poi quella figura goffa si trasformerà in persecutrice, occupando sempre più spazio nella sua vita e stravolgendola completamente. Martha lo ossessiona fornendogli un inquietante, quanto illimitato, rifornimento narcisistico attraverso uno scambio costante di identificazioni proiettive che tracima fino alla follia a due. La donna si presenta ogni giorno al pub e gli invia centinaia di mail, piene di sgrammaticature perturbanti, ma anche intrise della promessa di un amore incondizionato. Donnie è tutto il mondo di Martha, e per quanto ciò possa lucidamente apparire come un incubo asfissiante, per lui si rivela invece una dipendenza potentissima

In un crescendo orrorifico al quale assistiamo sbigottiti, talvolta irritati, ma sempre emotivamente coinvolti, Donnie viene trascinato dal suo inconscio giù per una spirale tragicomica e agghiacciante. L’unico modo per interrompere la discesa sarà esporsi e scarnificarsi in pubblico, durante i suoi spettacoli diventati poi virali, in un atto catartico di esibizione e autoflagellazione.

La serie inizia con la denuncia alla polizia sei mesi dopo l’inizio delle molestie da parte di Martha. Il poliziotto di turno chiede a Donnie perché gli ci sia voluto così tanto tempo per fare questo passo. In questa domanda sta l’essenza di “Baby Reindeer”, nella sovrapposizione tra la denuncia della stalker e l’autodenuncia del legame di reciproca dipendenza tra i due personaggi.
C’è però un precedente: con un flashback a metà della serie, Donnie descrive la sua sconvolgente esperienza nella Londra tentacolare dalla provinciale Scozia. Con la sua valigia piena di giochi e di idealizzazioni, come un bambino che si affaccia all’adolescenza, Donnie finisce invece risucchiato nel seducente ma perverso ambiente artistico-televisivo della capitale, rivelando tutta la sua inconsistenza identitaria. È lì che l’elemento luciferino piomba sulla scena, dopo aver colto le fragilità del ragazzo e ci si insinua, con la maestria tipica della perversione (Bolognini, 2007), fino a scavare in lui una tela di ragno che si intreccia a fondo con le sue vulnerabilità. E una volta che il seduttore è penetrato nell’ospite, instaurando un legame parassitario e depositando in lui le proprie debolezze via identificazione proiettiva, può essere scacciato solo al prezzo di strapparsi via una parte di sé.

Scrive Bolognini, a proposito della perversione narcisistica (ibidem): “La fantasia indotta in chi viene sedotto potrebbe essere: Questo oggetto è meraviglioso, e fa tutto questo proprio per me, dunque ciò significa che anch’io sono meraviglioso”.

Il trait d’union tra le due vicende, che da lì in poi corrono in parallelo, è infatti l’assoluto bisogno narcisistico di essere riconosciuto e amato nella propria unicità. Questa necessità può però diventare così totalizzante da non accettare nessun compromesso egoico, rendendo impossibile l’allontanamento da un oggetto esiziale, ma indispensabile.

Mentre il trauma viene ripetuto in modo coattivo alla ricerca di una riparazione — impossibile perchè alimentata inconsciamente anche da un trauma transgenerazionale — Donnie, preso all’amo dai suoi bisogni di realizzazione narcisistica e fagocitato dalla tossicità dell’ambiente londinese così come da Martha, finisce svuotato e profondamente danneggiato nell’autostima e nel senso di Sé, entrando in una profonda crisi anche rispetto al suo orientamento sessuale.

L’oggetto esterno diventa vitale per chi non riesce a produrre da sé quella quota di sostentamento narcisistico necessario a portare avanti la propria vita e ciò è evidente ad esempio quando, una scena per tutte, Donnie si consola per i propri fallimenti ascoltando i messaggi vocali pieni di ammirazione che Martha gli lascia in segreteria.

L’autoanalisi di Gadd è onesta, forse fin troppo, e non fa nessuno sconto, a lui in primis, ma anche allo spettatore. Pur transitando a tratti per un blaming the victim masochistico, l’autore mostra il parossismo di un meccanismo noto a noi tutti: chi di noi non ha mai desiderato rifugiarsi in quello stato di narcisismo primario, “His Majesty the Baby” (Freud, 1914), in particolare quando i nostri sforzi sembrano vani e i nostri bisogni di ammirazione vengono sistematicamente frustrati dalla realtà? E chi di noi può dire con certezza di non aver mai usato nessuno come oggetto-Sé (Kohut, 1971) per ripristinare il proprio narcisismo ferito?

La rete e una certa stampa non hanno, ovviamente, rispettato gli appelli di Gadd a “non cercare la vera Martha” e a chiudere qui la storia. È recentissima una discutibile intervista alla televisione inglese della supposta protagonista femminile della serie[2], la quale ribalta totalmente la versione di Gadd e minaccia plausibili azioni legali. Rientrando di fatto, ancora una volta e sotto gli occhi di tutto il mondo, nella vita dell’autore.

Quello di Gadd è un sofferto working through capace di interrogare noi tutti. Un viaggio abissale attraverso la reintroiezione, nel tentativo di separare il crudele senso di colpa tanto attuale dell’“essersela andata a cercare” dalla responsabilità delle aree più oscure del nostro mondo interno. Con la speranza di riuscire a riemergere, pieni di cicatrici, ma più vivi di quanto si fosse all’inizio.
Almeno fino al prossimo, egoistico, atto di gentilezza.

Bibliografia

Bolognini S. (2007). Piacere, maestria e legittimazione narcisistica: i punti cardinali della perversione. Giornata di Studio sul legame perverso. Centro Psicoanalitico di Bologna, 2007.

Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. OSF 7.

Kohut H. (1971). Narcisismo e analisi del Sé. Milano: Boringhieri.


[1] https://www.ilpost.it/2024/04/22/baby-reindeer-serie-tv/

[2] https://www.ilpost.it/2024/05/11/intervista-fiona-harvey-baby-reindeer/

vedi anche:

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