Recensione di Elisabetta Marchiori
Titolo: Austerlitz
Dati sul film: regia di Sergei Loznitsa, Germania, 2016, 93’
Trailer:
Genere: Documentario
Per ricordare, in immagini, l’Olocausto, in occasione del Giorno della Memoria, è uscito nelle sale “Austerlitz”, presentato alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia, di Sergei Loznitsa, regista cinquantenne nato in Bielorussia e cresciuto in Ucraina, autore di documentari e di lungometraggi (My Joy e Anime nella nebbia).
Il titolo è lo stesso del romanzo dello scrittore tedesco W.G. Sebald e del suo protagonista, un uomo che va alla ricerca delle sue origini ebraiche. Protagonista del film è, invece, una folla rumorosa e disordinata, accaldata, in abbigliamento da gita che, in un giorno d’estate, invade il campo di concentramento di Sachsenhausen, alla ricerca, si può ipotizzare, di accostarsi ad una realtà da cui sembra difensivamente rifuggire.
Girato in un abbacinante bianco e nero, con telecamera digitale nascosta, in presa fissa, si apre nel silenzio assoluto, per poi assumere come colonna sonora i rumori dell’ambiente, frammenti di conversazioni e di spiegazioni delle guide.
I martiri della Shoah furono sei milioni, i turisti sulle loro tracce dentro uno dei luoghi dello stermino, solo lo scorso anno, sono stati dieci milioni. Dieci milioni di turisti, probabilmente simili a questi, che appaiono spaesati, incuranti, inconsapevoli. Si fotografano in pose improbabili davanti ai pali di tortura, alle camere a gas e ai forni, appoggiati al cancello di ferro con la famosa scritta “Arbeit macht frei”, sorridono, scherzano. Guide tatuate spiegano in varie lingue a cosa erano adibiti i luoghi, quale era il destino dei prigionieri, le pentole dove si cucinava la brodaglia, poi la telecamera si sofferma su un gruppo in sosta mentre mangia panini farciti e a una coppia che sgranocchia noccioline. Forse anche la vita che si contrappone, nelle sue forme primordiali e più istintive, all’inferno.
Per novantatré lunghissimi minuti l’occhio dello spettatore “spia”, insieme a quello del regista, questa umanità senza identità, senza storia, senza nome, alla ricerca di quella umanità disumanizzata e resa cenere più di settant’anni orsono. La accompagna proprio fino al padiglione della raccolta delle ceneri, dove sono state bruciate le vite e dovrebbero iniziare la storia e la memoria.
E prova disagio a seguire questo percorso obbligato, ad essere costretto a constatare quanto è difficile, se non impossibile, guardare in faccia l’orrore di un pezzo di Storia che “per molti inimmaginabile e indicibile” (Didi-Huberman, 2003).
Il presente collassa sulla Storia in queste tragiche immagini in 2D, invadenti, violente, la cui visione agghiaccia il pensiero, inducendo durante tutta la durata del film una sorta di dissociazione affettiva, forse la stessa che si manifesta negli sguardi increduli, perplessi, talvolta inebetiti, dei turisti.
Il regista ha dichiarato: “Visitando questi campi, ho sentito subito una sensazione sgradevole nel mio essere lì: sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d’animo”.
Loznitsa trasmette allo spettatore questa sensazione sgradevole e questa curiosità, non ha uno sguardo neutrale, imparziale, oggettivo. Le angolazioni da cui riprende la folla, le sequenza scelte, pare abbiano lo scopo preciso di denunciare la mancanza di sacralità, la necessità di una maggiore presa di coscienza, perché la Memoria non sia deturpata o perduta.
Loznitsa riprende le persone che si fotografano e si riprendono, e lo spettatore può immaginare quelle foto e quei video.
Immagini di immagini di immagini … Quali sono necessarie, le “Immagini malgrado tutto” di Didi-Huberman (2003) e quali le superflue, se non invadenti, oscene? Qual è il confine? Che cosa hanno provato, pensato quelle persone che avevano scelto di passare un giorno d’estate in un campo di sterminio?
Sono domande che rimangono aperte, ma che è necessario siano poste.
Piotr M.A. Cywinski, direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz, autore del recente libro “Non c’è una fine”, edito da Bollati Boringhieri, da tempo insiste, come ricorda anche Natalia Aspesi (la Repubblica, 16 gennaio 2017) sul fatto che visitare i campi di concentramento è necessario non solo per non dimenticare mai la sofferenza e lo sterminio di milioni di ebrei, ma per ricordare che ciò è potuto avvenire per l’indifferenza del mondo, per il suo senso d’impotenza, per la sua collaborazione. Gli stessi sentimenti con cui anche oggi si voltano le spalle alle sofferenze e agli stermini quotidiani che pure stanno sotto i nostri occhi.
Per questo, tuttavia, i visitatori dei campi di sterminio devono essere messi nelle condizioni di “porsi domande e reagire”. “Penso che in un luogo come questo – dice sempre lo scrittore – ci voglia un misto di empatia e di radicale razionalità”(http://tessere.org/auschwitz-goldkorn-domanda-cywinski-risponde/)
I visitatori devono sapere, per poter vedere ciò che guardano, e provare empatia.
Gli spettatori di “Austerlitz” dovranno fare lo stesso. Questo forse è il senso di queste immagini, tanto difficili da sostenere: spingere lo spettatore verso la responsabilità a conoscere, sapere, per mantenere viva la Memoria del passato e costruire quella del futuro.
Gennaio 2017