Lars von Trier, Germania, Danimarca, Francia, Italia, Polonia, Svezia 2009
Commento di Vincenzo Lamartora
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Antichrist, del danese Lars von Triers, è un film bellissimo. Dopo lo sperimentalismo che da 15 anni ha caratterizzato il suo stile, con alterne riuscite, il maestro danese (e allievo di Bergman), ha realizzato un capolavoro sul dolore della perdita.
Come in qualunque vicenda analitica, la storia raccontata costituisce soltanto la tela narrativa oltre la quale si sviluppa la ricerca all’interno di se stessi.
Il film comincia con una lunga e dettagliata scena di sesso tra i due protagonisti, marito e moglie (una bravissima e intensa Charlotte Gainsburg e un avvincente William Dafoe). L’amplesso ha luogo nella sala da bagno, durante la doccia. La concitazione e l’eccitazione impediscono ai due coniugi di sentire ciò che accade al di la di essi, nella stanza attigua dove il loro piccolo dovrebbe dormire, ben protetto dalla barriera di legno della culla. E invece, il piccolo riesce a uscire dal box, ad arrampicarsi sul davanzale della finestra aperta, e scivolare giù insieme al proprio orsacchiotto di peluche. Quando termina la scena d’amore, i due amanti escono dal bagno rendendosi conto che il loro bambino è precipitato di sotto, ed è morto. Di qui comincia il film, una lunga catabasi nel dolore, di lei, soprattutto, che viene inizialmente ricoverata in clinica psichiatrica e trattata inutilmente con antidepressivi. Visti tuttavia gli scarsi progressi nella "elaborazione del lutto" di lei, il marito – che è psicoterapeuta – decide di prendere in cura sua moglie, buttando via i farmaci e contando interamente sulla possibilità di accogliere, convivere e risignificare il dolore della morte. Di primo acchito, i due sembrano concordare sulla direzione di marcia.
Il marito-terapeuta, un po’ maniacalmente, appronta tutta una serie di esperienze di rievocazione/ritorno sui luoghi d’infanzia, trascinando la moglie in un bosco e in una casa nel bosco che la stessa ha indicato come luogo di fantasmi e di angosce infantili, tra cui, principale, quella di camminare a piedi nudi sull’erba o distendersi e confondersi in essa. Il viaggio è costellato di soste, di scoppi improvvisi d’angoscia, di flashback relativi al bambino perduto, ma tutto sommato sembra che le cose possano andare bene: la moglie riesce a fare qualche passo sul prato, a dormire nella casa nel bosco, e anche il marito sembra ottimista sulla possibilità di riuscire a rielaborare quel dolore e quella perdita. Sembra. Giacché, ad un certo punto del film, inaspettata, una crisi psicotica assale la moglie la quale, in preda a una furia distruttiva, aggredisce il marito, tramortendolo con una plancia di legno: un ultimo colpo sferrato sul pene gli toglie i sensi. A questo punto, lei approfitta dello stato di anestesia del marito, afferra un trapano manuale, gli pratica un foro nella gamba sinistra e, attraverso il foro, gli aggancia all’osso un manubrio di cemento, avvitandolo con forza e buttando via la chiave inglese. Poco dopo lui si riprende, atterrito da un dolore descritto in tutta la sua truculenta e crudezza, si rende conto della follia della moglie e del suo intento omicida, si trascina penosamente per il bosco, trovando riparo in una tana di volpe. La moglie, trasformatasi in una Erinni, lo insegue, lo cerca, lo trova, e profittando della situazione di infermità del marito, lo colpisce ancora al volto ripetutamente e violentemente con una vanga. Dopodichè lo trascina in casa, gli si stende accanto, tenta di montargli sopra, non ci riesce, lo masturba, si imbratta di sangue e sperma, si stende accanto a lui, raccoglie un paio di grosse forbici arrugginite e si taglia il clitoride. Alcuni minuti di silenzio. Riprende la furia. Il marito riesce a difendersi alla meno peggio, e nella colluttazione fortuitamente riesce a mettere al muro la moglie e uccidendola, soffocandola. Cade al suolo, ritrova la chiave inglese, si sfila dolorosamente il disco di cemento ed esce via di casa, riprendendo il sentiero del ritorno. Il film si chiude su un’ultima scena corale, prolungata, nella quale si vede il protagonista che discende il bosco, claudicando, e incrociando una folla di altre donne che risalgono verso la casa, riprese di schiena, nude.
Io trovo che il film sia un capolavoro per diversi motivi.
Innanzitutto estetici. Il bianco e nero delle scene iniziale e finale (quella dell’amplesso, e quella conclusiva dell’ascesa delle donne sul monte) è geniale, poiché marca un’immediata differenza tra il desiderio e la realtà, tra il fantasma e la realtà, tra il tempo del dolore o della gioia, e quello della riflessione: le scene iniziali e finali sono infatti rallentate, come a sottolineare una diversa temporalità dell’emozione, non solo del piacere orgastico, ma anche della catastrofe ed anastrofe della vita nei suoi più traumatici passaggi. E questo ambito del sogno, della memoria, del desiderio, è come l’inconscio: privo di sequenzialità logica, condensato nei suoi significati, contraddittorio ed enigmatico – visto che dallo stessa integrazione del sogno rinasce il piacere e la disgregazione orgastica – e soprattutto, caratterizzato da una prevalenza delle immagini e della sensorialità rispetto alla parola. Non per niente Lars von Triers sottoscrive alle scene iniziali e finale la stessa bellissima aria lirica, tratta dal Rinaldo di W. F. Haendel. E’ questo sfondo musicale, questo tappeto sonoro che ti permette di chiudere gli occhi, sospendere come in epoché ogni riflessione, ogni appiglio alla realtà, e ti induce a seguire per libere associazioni, a entrare nella scena dell’amplesso, partecipando delle stesse sensazioni, della stessa forza, dello stesso piacere degli amanti. E dello stesso spavento, dell’angoscia senza nome, della caduta nella follia di fronte alla morte colpevole del figlio.
La lunga perdizione nel dolore è il motivo di fondo del film, che non diventa mai un documentario sulla follia umana o sui tic narcisistici di uno psicoanalista. Mai l’irrompere della follia della madre rimasta orfana arriva inaspettato, e mai i pur pretenziosi metodi comportamentisti del marito riescono a negare il suo coinvolgimento nel dolore della moglie, ad annullare il senso terapeutico del suo "lavoro", che è quello di condividere il dolore della la moglie, di starle accanto, di sostenerla, di agganciarsi a un filo d’erba, a una pietra del bosco, quando a lei sembra di perdersi per sempre in quel filo, su quella pietra, sotto la grandinata di ghiande che ogni notte gli toglie loro il sonno.
A metà del film hai la sensazione che qualcosa di falso si stia imponendo, qualcosa di difensivo, la precognizione che nessun viaggio, nessuna analisi, nessun amore, nessuna vicinanza o vocazione può arginare l’abisso del dolore. Perché il dolore vero è solo quello della perdita che non si colma, non si ripara, non si sostituisce. Il dolore vero è regressione, alla dipendenza, all’agito, alla sesso cercato non per piacere ma per ritrovarsi, per sentirsi esistere. Il dolore vero è amputazione, ritorno alla confusione, alla perdita dei confini, allo sballo dei sensi: in una delle scene nucleari del film lui la prende per mano e la porta tra gli alberi più fitti del bosco, la distende e la possiede più volte intrecciando le braccia, le sue, le altre, con le radici contorte e maestose delle querce, con la terra e le vene dell’antro in cui sono ritornati. L’antro, loculo o utero, è il vero fantasma e il vero desiderio di reinfetazione, sotteso all’involuzione dentro se stessi che la perdita incolmabile impone.
Com’era naturale dopo tanta consunzione, lei crolla. La perdita di sé si trasmuta in esplosione della rabbia, distruttiva, in ultimo tentativo – questo sì autentico – di uccidere il corpo, di infliggere al corpo, proprio e del marito, quel dolore fino ad allora rimasto interno. Il manubrio di cemento che lei salda alla tibia dell’amante-marito-altro è, a mio avviso, il punto più riuscito del film, la soluzione manifesta che rende scioglie l’annosa e spesso vuota metafora della perdita d’amore come di un peso che ci schiaccia, da trascinare per sempre. Qui il peso è concreto, e nessun’altra parola o riflessione può "spiegare" nient’altro a coloro, ai tanti che mai hanno subito una perdita insostituibile; qui il dolore torna a essere concreto, carne e ossa, per dire che la separazione può diventare amputazione del pensiero, perdita dell’intera capacità di rappresentazione dell’uomo che, allora, ritorna a funzionare soltanto sentendo, vivendo, condannato a sentire ed agire. La luce si spegne, infatti, in questa parte dl film. I due tornano a cercarsi come in un ultimo luogo osceno, ciechi, come nel buio dell’interno. La morte, che i due amanti cercano di infliggere all’altro ed a se stessi, è il vero sentimento che i due profondamente condividono, il solo che li leghi, ormai, li accomuni, il solo che realizza quell’integrazione ideale, sognata, di due corpi che diventano unico, di due soggetti che regrediscono o evolvono sino a (ri)diventare uno solo, confuso, indifferenziato, dis-aggregato, come nelle macellerie o nei ritratti più sofferti di Francis Bacon.
E la scena finale è un quadro mai visto, composto dai tanti corpi nudi, com’è il corpo che soffre, femminili, com’è femminile il corpo che patisce la separazione e perdita. Una miriade silenziosa che s’arrampica e si confonde sul fianco di un bosco, tra le radici e le mangrovie che rimandano alla cavità interna originaria della vita, che riportano ad un utero, con le sue vene, le sue mucose frastagliate ed arboree, il suo ambiente di terra umida dove il femminile e il materno ritrovano la loro destinazione finale, il contenitore naturale del dolore estremo: la nascita e la morte, nella quale le donne sono sole, non viste, perdute, slegate da un pensiero che non parla, da uno sguardo che non aggancia, dal proprio desiderio, dall’amore del padre.