Cultura e Società

“All we imagine as light” di P. Kapadia. Recensione di A. Meneghini

25/10/24
"All we imagine as light" di P. Kapadia. Recensione di A. Meneghini

Parole chiave: assenza, identità femminile, trasmissione generazionale

Autrice: Alessandra Meneghini

Titolo del film:”All we imagine as light”

Dati sul film: regista Payal Kapadia, Francia, India, Paesi Bassi, Lussemburgo, Italia, 2024, 111′

Genere: drammatico.

Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes 2024, l’ultimo lungometraggio della giovane regista Indiana Payal Kapadia colpisce per la delicatezza con cui è rappresentato il tema del femminile e per il tocco poetico delle scene.

La vicenda narra la quotidianità di tre colleghe infermiere, di generazioni diverse, che operano in un caotico ospedale di Mumbai, metropoli indiana, precedentemente nota come Bombay. Oltre al luogo di lavoro e alla cultura indi, le due donne condividono il medesimo minuscolo appartamento, dove si muovono strette tra gli umili oggetti della quotidianità e un misterioso regalo proveniente dalla Germania, parte di un Occidente sconosciuto quanto opulento. Prabha, donna di mezza età, è irretita nel doloroso e muto ricordo di un marito sposato per volontà delle famiglie, emigrato nel paese teutonico e mai più ritornato. Anu, più giovane, vive invece una storia d’amore con Shiz, un ragazzo musulmano, al quale la lega un amore fresco, ma ostacolato dalla differenza religiosa.

Sullo sfondo, si colloca la più anziana Parvaty, alle prese con la minaccia di essere privata della casa dagli avidi costruttori senza scrupoli di Mumbai. Apparentemente fragile e inerme, in realtà Parvaty è il vero enzima catalitico della storia, metafora di un materno vitale e trasformativo, a cominciare dalla secca battuta rivolta all’amica Prabha in pena: “Sai cosa farei a tuo marito? Gli darei uno schiaffo!”.

Tre donne lungo tre generazioni, a rappresentare un femminile creativo, al contempo oppresso dai rigidi retaggi culturali indiani, fatti di matrimoni combinati e di divieti legati alla sessualità. Così, è come se le donne protagoniste del film di Kapadia oscillassero tra i rigorosi e anacronistici veti della tradizione, rappresentati dalla sofferta clandestinità in cui Anu vive la relazione con Shiz, e una possibile e feconda apertura al nuovo, rappresentata simbolicamente dal reparto ostetrico-ginecologico dove lavorano. L’ambivalenza, il conflitto interiore, l’incertezza insiti in questo percorso identitario del femminile vengono resi attraverso un attento e delicato tratteggio psicologico delle protagoniste: la seria e affidabile Prahba, ostinatamente fedele al ricordo del marito che l’ha abbandonata, in simbolica tensione emotiva rispetto al proprio doppio, la giovane Anu, trepidante e vitale nel suo desiderio socialmente proibito verso il coetaneo musulmano.

Quasi fosse un capiente e opprimente utero geografico, troneggia l’immensa, caotica, brulicante Mumbai, con il suo denso tessuto sociale e ambientale che preme sui personaggi e sulle loro esistenze, muta testimone e forse anche origine delle loro tensioni interiori. Un luogo magico e al contempo contraddittorio, dove “bisogna credere alle illusioni, altrimenti si impazzisce”. Un troppo, insomma, un eccesso di elementi beta sensoriali, direbbe Bion (1962), che intrude nei corpi e nelle menti dei suoi abitanti, visualizzato da un’incessante pioggia che inzuppa ogni cosa, dal flusso perenne di corpi in movimento della folla metropolitana e dalle luci sgargianti dei suoi quartieri, su cui nemmeno la notte sembra avere potere. A fronte di questo oggetto ostruente (Grotstein, 2007), il punto di svoltasembra allora prendere le fattezze di un documento che non si trova (l’atto di proprietà della casa di Parvaty), e di un marito, quello di Prahba, che non c’è, che forse non è mai esistito. Sono sparizioni che immettono nell’esistenza delle tre donne la dimensione dell’assenza, del negativo, preludendo a orizzonti spazio-temporali inaspettati, favorendo l’elaborazione del lutto e l’avvento di una dimensione identitaria autentica. Così, in difetto del documento di proprietà, Parvaty sceglie di tornare al suo villaggio, lontano dalla metropoli, in riva al mare, seguita a breve per una visita da Prahba e da Anu. È lì, nel silenzio e nella quieta bellezza del paesaggio marino, che Prahba, complice un incontro fortuito con un pescatore, riesce a ri-sognare la sua relazione con il marito, arrivando a elaborarne la perdita, in una sequenza filmica di delicata rarefazione onirica. Quasi sincronicamente, Anu superando le proprie paure, si abbandona all’amato Shiz in una scena erotica tra le più belle viste recentemente, metafora di un accoppiamento creativo, oltre che dei corpi, anche delle menti, ora finalmente possibile.

Gli ultimi istanti del film scorrono in una sequenza girata in riva al mare, in un piccolo chiosco circondato dalla notte, quasi a rappresentare quel continente oscuro, notturno, con cui Freud definiva il femminile. Parafrasando Grotstein (2007, ibidem), si potrebbe dire un “raggio di intensa oscurità”, ignoto e per questo fecondo, cifra simbolica di un’identità femminile che le tre donne del film di Kapadia creativamente ri-fanno propria, a memoria della celebre frase di Goethe citata da Freud (1912-13): “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”, in una suggestiva rivisitazione della trasmissione generazionale sul versante del materno.

Bibliografia

Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972.

Freud S. (1912-1913). Totem e tabù. O.S.F., 7.

Grotstein J. (2007). Un raggio di intensa oscurità. Raffaello Cortina, Milano, 2010.

Ottobre 2021

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