Autore: Elisabetta Marchiori
Titolo: Adults in the Room – Cinema e Potere alla 76esima Mostra del Cinema
Dati sul film: Regia: Costa-Garvas, e altri Grecia, 2019, 124’ –
Genere: Biografico, Drammatico
“Ci vorrebbero degli adulti in questa stanza” è la frase che la Sig.ra Lagarde, oggi a capo della BCE, ha pronunciato durante delle tante litigiose riunioni dell’Eurogruppo, messa in scena dal film di Costa-Gavras (Francia, Grecia, 2019, 124.), durante le quali Gianis Vaurofakis (che ha scritto le memorie da cui è tratta la pellicola) ha cercato di rinegoziare il debito della Grecia con l’Europa. Il film, presentato fuori concorso dal regista ottantaseienne che nelle vicissitudini della crisi greca è profondamente coinvolto, è “una tragedia dei nostri tempi”, come dichiara lui stesso. Quegli uomini politici che si presume siano adulti e come tali dovrebbero comportarsi, appaiono come bambini testardi e capricciosi, incapaci di confrontarsi e risolvere i conflitti, tutti concentrati su loro stessi e sul proprio potere.
Ed è il tema del potere a riproporsi in questa formidabile edizione della Mostra, in film molto diversi tra loro, diretti da registi provenienti da mondi geograficamente lontani e che raccontano vicende storiche o contemporanee, siano documentari, ispirati a storie vere, oppure di finzione. E non è un luogo comune affermare che il cinema “della realtà” riesca ad andare ben oltre la finzione e l’immaginazione dello spettatore, per quanto informato.
Tre sono i film documentario fuori concorso che fanno luce sulla perversione e la corruzione delle dinamiche politiche nel mondo.
Uno è “Citizen k” di Alex Gibney (UK, USA, 2019, 128’), “il più importante documentarista del nostro tempo”, premio Oscar nel 2008 per “Taxi to the Dark Side”. un “ritratto cinematografico” di quello che è stato l’uomo più ricco della Russia: Mikhail Khodorkovsky. Questo cinquantaseienne è ora un dissidente esiliato a Londra, amnistiato nel 2013 dopo aver scontato una decina d’anni in Siberia ai lavori forzati. Il film monta spezzoni di interviste e materiale documentario, dichiarazioni di giornalisti, avvocati e altri testimoni, che trascinano lo spettatore nelle assurde dinamiche del potere in Russia. L’ex-oligarca è stato certamente un uomo senza scrupoli, ma è diventato un riferimento per l’opposizione democratica sia per una evoluzione personale sia per la fermezza dimostrata nel fronteggiare un avversario come Putin. Alla domanda su come mai non lasciò il paese come altri oligarchi fecero per evitare la Siberia, risponde: ”Perchè non dò abbastanza valore alla vita per barattarla con la libertà”.
“Kingmaker” (USA, 2019, 100’) della regista e fotografa Lauren Greenfield, vincitrice dell’Emmy Award, ripercorre la terribile storia del regime di Marcos attraverso il racconto della vedova del dittatore, Imelda, che attualmente cerca di riportare al potere la sua famigli con la persona del figlio Bongbong. La donna, che possedeva tremila paia di scarpe e aveva creato un parco safari personale importando animali dall’Africa in una piccola isola che aveva fatto liberare dai suoi abitanti si racconta, paradossalmente, come una madre che ha nutrito il suo paese e di cui esso ha ancora bisogno.
“Collectiv”, diretto dal regista romeno Alexander Nanau (Romania, Lussemburgo, 2019, 109’) segue tutte le tappe dell’inchiesta giornalistica che è riuscita a scoprire la radicale corruzione del sistema sanitario in Romania. Nel 2015 durante un incendio in un locale morirono subito ventisette persone e centocinquantacinque rimasero ferite. Molte di quelle ricoverate persero poi la vita in seguito ad infezioni nosocomiali: l’inchiesta portò a scoprire che l’azienda che aveva in appalto i prodotti per la sterilizzazione li diluiva tanto da risultare inefficaci. Il regista ha dichiarato di aver imparato “quanto le persone e i sistemi manipolino da posizioni di potere, distorcano la verità e la legge, calpestino la dignità e i diritti fondamentali dell’uomo”.
In concorso invece uno dei film più apprezzati dalla critica e dal pubblico “J’accuse” (Italia, Francia, 2019, 132’) di Roman Polansky, che riprende lo storico “affaire Dreyfus”, dal nome dell’ufficiale dell’esercito francese di origine ebraica condannato nel 1895 come traditore e deportato nell’Isola del Diavolo nella Guiana francese in completa solitudine. Si è trattato di un clamoroso caso di errore giudiziario che è diventato il più grande conflitto politico e sociale della Terza Repubblica francese, innescando un dibattito culturale importantissimo. Polansky accende i riflettori sul tema della giustizia e della sua corruzione dal punto di vista dell’accusatore: il protagonista è infatti Georges Picquart (interpretato da Jean Dujardin), l’uomo diventato capo del controspionaggio che per primo aveva volto i sospetti su di lui ma, quando comprende che è innocente, lotta per la verità contrapponendosi all’esercito. Anche qui i processi sono delle farse, delle montature ad hoc costruite su assurdità e prove inconsistenti.
Queste storie lasciano lo spettatore spiazzato, scandalizzato, inorridito talvolta. Il cinema ci offre un’occasione per ampliare le nostre conoscenze e le nostre consapevolezze: siamo tutti responsabili di come vanno le cose nel mondo e non solo quelli che si trovano nelle “stanze” istituzionali dovrebbero essere adulti.