di Joel e Ethan Coen, USA, Francia, 2013, 105 min.
“The same imagery which occurs also means”
(Marcus B. Hester)
“A volte è bello ascoltare canzoni, e sentirle
cantare ancora, come i racconti e le favole della nonna”
(Francesco Guccini)
Nella sequenza iniziale di “A proposito di Davis”, i fratelli Coen decidono di mostrarci subito il protagonista, Llewyn Davis, dal nome gallese difficilmente pronunciabile, mentre canta “Hang me, oh hang me”, una canzone del repertorio del folk classico statunitense, quasi a voler rappresentare un personaggio principale che si auto demistifica nel momento stesso in cui si propone sulla scena. Un “Io impiccato”, dalle origini appunto impronunciabili, che porta dentro di sé una madre morta (Green, 1980), costretto a vagare nomadicamente, in modo afinalistico, per le strade del Greenwich Village, a New York, oppure a Chicago, oppure non importa dove, poiché Llewyn abita in un non-luogo dell’Essere, in un àtopos perennemente ciclico, coattivo, sfuggente: la Grande Assente nella vita di Llewyn (e in tutto il film) è appunto la madre. La madre è la vera protagonista del film, una madre il cui deficit di rêverie determina e costruisce il mondo surreale abitato da Llewyn Davis. Il cantante folk che vediamo muoversi e vagare alla deriva di una vita senza alcuna progettualità e senso è, infatti, ciò che potremmo definire con Bion un “pensiero senza pensatore”, che non troverà mai il suo pensatore. Il film immerge lo spettatore in un clima di assoluto “pessimismo cosmico”, laddove non ci fa apparentemente intravedere alcuna possibilità di Speranza, di Legame, non vi è traccia di un qualsiasi oggetto buono, oppure di un contenitore di coppia capace di favorire evoluzioni trasformative, di estrinsecare un qualunque abbozzo di crescita psichica.
Il risultato di queste assenze radicali è che il mondo abitato da Llewyn è un inferno esistenzialistico, un errare nell’incertezza più assoluta all’interno di relazioni solamente parassitarie. L’assenza di rêverie nel passato genera un’assenza di futuro: Davis è un eterno figlio che non può mai diventare padre, che si lascia dietro di sé relazioni sessuali occasionali con donne che mette incinte, ma che poi se ne vanno allevando il figlio da sole, oppure abortendo. Green (1980), riferendosi al concetto psicoanalitico di “madre interna morta”, parla di un quadro clinico al cui centro non emergono aspetti depressivi, ma narcisistico-distruttivi, con un investimento ipercompensato e non autentico dell’Io. La non presenza di Odio e di Amore intesi come tessuto affettivo che costruisce il Legame, porta invece a una “tendenza zero”, come destrutturazione dell’Io stesso e sua involuzione dell’Io. Davis, infatti, non può fare altro che “tenere vivo l’Io”, per dirla con Green, passando da un divano all’altro in case di “amici”, oggetti alternativi ma incapaci di colmare il vuoto di un lutto difficilmente elaborabile. Non siamo però dalle parti di un quadro melanconico, nel quale è presente una tensione relazionale pur su base narcisistica, ma in uno stadio precedente, cioè in una stasi ciclica e indifferenziata, in-differente all’Oggetto, come rispecchiamento di un non-riconoscimento del Soggetto da parte dell’Oggetto medesimo. Tornando a Bion potremmo dire che i Coen ci mostrano una “frammentazione statica” (Bion, 1967), un dinamismo apparente che nasconde un’inautenticità relazionale di base.
Per chi frequenta la poetica cinematografica dei fratelli Coen, non sarà difficile, visionando questo film, individuare nella loro narrazione un forte rimando alle radici ebraiche, a quel tormento esistenziale che accompagna le vite dei protagonisti delle loro opere precedenti (in particolare ricordiamo Fargo, 1996; Il grande Lebowski, 1998; Non è un paese per vecchi, 2007, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy). Da un certo punto di vista Llewyn Davis è l’incarnazione stessa del popolo ebraico: “Ho girato tutto il mondo. Sono salito su una montagna e lì ho fatto resistenza. Ma ora mi impiccheranno”, recita il testo della canzone iniziale cantata da Davis al Gaslight Cafè di New York City.
La poetica di Joel ed Ethan Coen sembra tuttavia volerci dire qualcosa in più rispetto alla semplice descrizione pessimistica della vuota ciclicità esistenziale in cui si trova immerso Davis, un Oscar Isaac molto intenso pur nell’interpretazione di un personaggio che si muove nell’America degli anni ’60, a tratti antipatico e asociale. I Coen sembrano segnalarci che il non-senso della vita di Davis può trovare un nuovo senso proprio nella ciclicità della struttura narrativa stessa, cioè in quel dispositivo di risemantizzazione narratologica che è l’opera cinematografica, così come lo sono anche le canzoni che il protagonista canta nel corso della pellicola. L’episodio iniziale dell’incontro di Davis con l’uomo misterioso che lo prende a pugni nel vicolo, è, infatti, ripresa nel finale, ma acquista solo in après coup un significato che all’inizio non eravamo stati in grado di cogliere. “A proposito di Davis” appare così una sorta di rappresentazione paradossale ed estremistica di quella “pulsione a significare” di cui hanno recentemente parlato Giaconia, Pellizzari e Rossi (1997), concetto ripreso da Umberto Eco e utilizzato da questi Autori in ambito psicoanalitico per indicare la tensione conoscitivo-curativa su cui si fonda il lavoro della coppia analitica. Il pessimismo coeniano vira cioè, in questo film, verso l’idea che la narrazione e le sue strutture significanti, nella loro ricorsività anche coattiva e deterministica, facciano intravedere il germe di una “grammatica generativa” affettiva e peculiare all’umano sentire, grammatica capace di rimettere in qualche modo in moto il motore della speranza. A differenza del suo partner suicida, Davis continua, nonostante tutto, a cantare le sue struggenti canzoni, a New York come a Chicago, di fronte a un pubblico che ascolta, determinando così lo spazio per una nuova, inedita tensione relazionale e conoscitiva. In fondo è proprio ciò che accade in analisi, spazio relazionale nel quale anche il racconto più doloroso, ambiguo o straniante riceve un’accoglienza e si muove, attraverso quella “competenza” (Giaconia, Pellizzari, Rossi, 1997) che è l’ascolto analitico, verso nuove possibilità di simbolizzazione. Forse è quello che affermava anche Freud nel Compendio di Psicoanalisi, a proposito del transfert: “L’inconscio – che normalmente è il nostro avversario – ci dà una mano, giacché gli è propria una naturale “spinta ascensionale” e a nulla aspira tanto quanto a varcare i confini che gli sono imposti e a giungere fino all’Io, penetrando nella coscienza” (Freud, 1938, OSF, XI, 606). Questa spinta straniante, perturbante, mobilitata dal setting, acquista una valenza di intenzionalità che va alla ricerca di un senso affettivamente e umanamente condiviso all’interno di una relazione competente. Per i Coen è il set-setting cinematografico in particolare e la costruzione estetico-narrativa in generale, a porsi come spazio potenziale capace di rompere la coazione del non-senso, aprendosi così a un’ulteriore, seppur sempre limitata comprensione dell’esistere.
Febbraio 2014