A proposito di Davis (Inside Davis)
(di Ethan e Joel Coen, USA, Francia, 2013, 105 min.)
Amedeo Falci
Non è un paese per giovani.
Quella dei fratelli Coen, nell’ambito del cinema ufficiale USA, ci pare l’unica cinematografia capace di una riflessione ‘filosofica’ coerente sull’incredulità e sullo smarrimento umano di fronte all’inesplicabilità del mondo. In un insistente smontaggio di ogni certezza, di ogni sicurezza e di ogni ‘senso’ religioso del mondo. Già! Fare i conti con il proprio retaggio ebraico. Anche se della cultura letteraria ebraica ripropongono, anche qui, con iterazione, la figura dello schlemiel (Roberto Tallarita, su Gli Spietati, rivista di cinema on line), termine di origine Yiddish [http://www. balashon. com/ 2009/12/shlemiel.html]. Lo schlemiel, il poveraccio perseguitato dalla mala sorte, i cui sforzi non arrivano mai a buon fine. Rileggere sotto questo punto di vista la filmografia dei Coen e, segnatamente, “A serious man” e “Non è un paese per vecchi”, dei quali, questo di cui parliamo è, in un certo senso, una costola. A tal punto è smarrito e perplesso lo sguardo dell’uomo, che è eternamente privato delle ragioni della sua sfortuna. Schlemiel come Giobbe, il perseguitato, l’avversato.
Direi che la cine-filosofia dei Coen è agli esatti antipodi della cine-filosofia di Lynch. In quest’ultimo, i particolari più ordinari della vita ordinaria sono riscattati ad un senso sovraordinato oscuro, potente, terrifico, ipercondensato e non pronunciabile. Si pensi, ad esempio, alla lunga carrellata lungo un corridoio di un’abitazione comune che conduce verso il buio e il nulla, in “Strade perdute”. Dall’altro canto, l’attenzione coeniana si dirige verso oggetti e fatti ovvi, banali e comuni per estrarne ogni possibile senso. In una filmica che costantemente spiazza lo spettatore perché non accade mai ciò che per il senso comune potrebbe accadere. Come in “Burn after reading” e in “Non è un paese per vecchi”, dove i Coen si divertono a disorientare, lasciando che il centro dei fatti sia sempre o un po’ più in là, o che la macchina da presa arrivi un po’ dopo l’azione decisiva. Perché appunto il gioco coeniano sta in una lieve dislocazione, nella rottura dell’analisi logica e nella consecutio razionale dei fatti.
Così, in “A proposito di Davis”, soltanto alla fine cogliamo la struttura circolare della narrazione, che si chiude esattamente sulla scena iniziale. Quello che ci pareva uno scorrimento orizzontale di alcuni giorni era invece un loop. “Au revoir” sono le ultime parole del protagonista verso l’uomo che lo ha picchiato proprio in apertura del film. “Au revoir”, arrivederci ma, anche, “da rivedere”. Il film dovrebbe ora riscorrere daccapo per essere rivisto e per cogliere il circolo.
Non esiste un significato nello scorrimento degli eventi per Davis, come non esisteva un Dio o un Logos in “A serious man”, dove il Professor Gopnik chiedeva invano spiegazioni sul senso del mondo a tre rabbini (esperti della religione, della mente, di Dio) che, infine, non sapevano proprio che cosa dire. Allora il vertice filosofico del film è nello sguardo attonito e ignaro del gatto che guarda con un’intensità ipnotica e vuota il susseguirsi veloce delle varie stazioni della metro senza capirne il senso. Questo è lo scorrimento dei fatti della vita, senza che possiamo afferrarne qualcosa.
Questa è la vita di Llewyn Davis, che scorre senza un punto di riferimento fisso, senza un casa, senza un letto e senza un cappotto. Llewyn ignora perché nessuno gli compri la musica, perché non abbia successo, perché non ha nessun posto che lo accolga, perché nemmeno la marina mercantile infine lo accolga, perché suo padre lo ascolti senza capire. Niente avviene come ti aspetti. Il gatto che dovrebbe star dentro casa, scappa. La ragazza è rimasta inaspettatamente incinta. Le scritture non arrivano. Giungere a Chicago non è così semplice come si poteva immaginare. E la Gate of Horn non lo accoglie, perché in quello che suona e canta “non ci si vedono molti soldi”. E quando la sua vita potrebbe svoltare per Akron dove ci sono la sua precedente ragazza ed un figlio suo, l’highway procede.
La vita di Llewyn Davis scorre senza un punto di riferimento, tranne la musica. Film appunto generato della passione dei Coen per la musica folk dei primi anni sessanta. E Davis è insieme semisbandato schlemiel, ma, anche, intransigente artista che non (s)vende la sua arte. In quest’orizzonte, il film non offre soluzioni e dichiara la sua programmatica ambiguità. Che cosa c’è dopo “au revoir”? L’eterna ripetizione del fallimento? Oppure? Non sarà sfuggito che nella scena prefinale del club, che riprende la stessa scena dell’inizio del film, c’è un particolare in più. bob dylan che suona, prima di diventare Bob Dylan. Dunque forse Davis avrà una vita (musicale e di successo) oltre la ‘morte’. Forse. Forse è il folk che sfonderà, anche grazie ai misconosciuti davis. I giganti Dylan che si reggono sulle spalle dei Davis. Ma forse non sarà così. Forse. Rivediamo sempre le stesse sequenze. Forse con qualche scarto in più. Almeno.
Un film sapiente, curato, raffinato, filmicamente ipercitazionista e filosoficamente coerente, che assicurerà ai due fratelli del Minnesota un Oscar nella Storia della Filosofia Americana.
Comunque adesso viene il meglio.
Per i malati mentali cinematografici ecco tutte le citazioni e gli omaggi dei Coen al cinema (per quanto ne ho capito).
La storia dei gatti che scappano è “Ognuno cerca il suo gatto” di Klapish. Ed anche “F.B.I. Operazione gatto”.
Temi disneyani confermati dalla scena in cui Davis osserva un poster cinematografico che pubblicizza “The Incredible Journey”, produzione Disney appunto, sulla storia di due cani ed un gatto sperduti che ritroveranno, infine, la strada di casa. Ovviamente, il triangolo amoroso tra Llewyn, la ragazza Jean e il suo ragazzo Jim è omaggio a “Jules e Jim” di Truffaut. Ma questa era facile facile.
Le scene notturne sull’autostrada, quando l’autista viene preso dalla polizia, sono autocitazioni del loro primo (forse) film “Blood Simple”. Così come il viaggio nella neve è autoriferimento a “Fargo”.
Il giovane autista, Johnny Five, fumatore mattoide e silenzioso, è preso di peso da Christopher Walken che fa il fratello mattoide, appunto, di Annie Hall–Diane Keaton che, di notte, guida silenziosamente e spaventosamernte citando la morte, in “Io & Annie”, di Woody Allen.
L’ospitalità di Davis presso gli intellettuali benestanti, collezionisti di arte, è tributo a “Sei gradi di separazione” di Fred Schepisi, con un giovanissimo Will Smith. Stupendo film passato troppo velocemente in oblio.
Il gatto, e questa è, scusate, banale, è omaggio al ‘nostos’ di Ulisse, che riapproda infine a casa.
Come di stesso genere odisseico è il nessun nome al secondo gatto, “Nessuno”, appunto.
E l’impresario di Chicago che ascolta turbato ed emozionato, malgrado l’impassibilità, la musica di Llewyn, capendone le doti, ma anche l’invendibilità sul mercato, è impersonato dallo stesso Murray Abraham che fu un indimenticabile ‘doppissimo’ invidiosissimo Salieri (!!!) in “Amadeus” di Forman.
Il corridoio geometricamente ‘impossibile’ dell’abitazione di Jean – uno stretto spazio tra due muri paralleli, che infine ‘convergono’, tanto che le due porte che vi si aprono al termine sono ad angolo, e non di fronte – è di stretta citazione, moderatamente allucinatoria, dallo “Shining” di Kubrick e da parecchi interni di Lynch.
Direi, infine, che il nome del protagonista Llewyn è la contrazione dello stesso identico nome del protagonista di “Non è un paese per vecchi”, cioè Llewelyn. Per segnalarci la contiguità (continuità?) dei personaggi. Personaggi alla ricerca di una realizzazione impossibile che, pur avendo un tesoro (la musica, il bottino) non riescono ad approdare a nulla, perseguitati da una sorte che non rimanda a nessun Fato, a nessun Logos, a nessun Fine Ultimo. E che neppure i rabbini (o chi per loro) sanno spiegare. La successione dei fatti del mondo scorre velocemente come sotto gli occhi di un gatto che, pur attratto dal movimento, non ‘afferra’.
Marzo 2013