Cultura e Società

“A complete unknown” di J. Mangold. Recensione di P. Ferri

7/02/25
"A complete unknown" di J. Mangold. Recensione di P. Ferri

Parole chiave: genio, impegno civile, musica, speranza

Autrice: Paola Ferri

Titolo del film: “A complete unknown”

Dati sul film: regia di James Mangold, USA, 2024, 141′

Genere: biografico, musicale, drammatico

Il film, candidato a numerosi premi Oscar 2025, narra la vita artistica e personale del grande musicista, cantante, scrittore e chitarrista Bob Dylan (Robert Zimmerman), dal 1961, anno in cui è arrivato a New York con uno zaino in spalla e una chitarra, al 1965, anno in cui è definitivamente lanciato nell’universo musicale. Ha lasciato un segno indelebile, influenzando gli sviluppi musicali che verranno, e aggiudicandosi il premio Nobel per la Letteratura nel 2016.

L’interprete è Thimothée Chalamet, ventinovenne attore franco-americano, di una bravura fuori dal comune, che riesce a calarsi nel personaggio in maniera  impressionante: canta e suona dopo un apprendimento che, credo, abbia richiesto un anno circa, imitando voce, movenze e atteggiamenti tipici di Dylan, come lo sguardo obliquo, tra il timido e l’altezzoso.

Non è da meno, quanto a bravura e capacità di immedesimazione, Monica Barbaro, che interpreta una fantastica Joan Baez, famosa folk singer impegnata sui diritti civili, compagna del musicista in quegli anni, in un rapporto non certo esclusivo, ma intenso complice e romantico.

Fanno da contorno per primo Edward Norton, che canta e suona pure lui per l’occasione, che interpreta Pete Seeger, il più influente cantante folk statunitense insieme a Woody Guthrie: iniziò a girare e suonare con la moglie Toshi fin dagli anni 40, fu processato dal maccartismo per contenuti sovversivi, è stato l’autore di brani celebri come We shall overcome (1963) e Where are the flowers gone (1973), entrambi portati al successo da Joan Baez, in occasione di bui periodi della storia americana, come inni alla pace e alla convivenza razziale.

Poi c’è Elle Fanning, che interpreta Sylvie Russo, nella vita reale Suzy Ruotolo, una ragazza intelligente che è stata fedele compagna dell’artista per qualche tempo. Tuttavia forse non era all’altezza del genio, o era impossibilitata a rivaleggiare con un mostro sacro, come Joan Baez. Dylan le ha dedicato It ain’t me baby, scritta nel 1964, che nel film canterà proprio con Baez, segnando la fine del loro rapporto. Quest’ultima confesserà in Diamonds and Rust (1975) di aver molto sofferto della rottura di un rapporto che è stato intenso, artistico, impegnato e passionale, ma alla fine impossibile.

Il film è bellissimo: parla di perseveranza, amicizia, dedizione, potenza degli affetti e della musica, amore romantico, generosità e passione.

Dylan, arrivato a New York, va direttamente da Woody Guthrie, già ricoverato e al termine della vita, e nel nosocomio conosce Pete Seeger, che lo protegge e lo avvia a un successo intramontabile. Si instaura una sorta di legame edipico, in cui il padre protettore Pete favorisce l’ascesa dell’enfant prodige fino a che questi sarà in grado di separarsi da lui e di andare per la sua strada.

Il film termina quando Dylan restituisce l’armonica donatagli da Guthrie, perché diventa sensibile alla nascita del rock, e comincia a usare anche la chitarra elettrica, con grande disappunto di Seeger, che rimarrà fedele al folk, cantato e suonato in contesti popolari e impegnati, come un grido di speranza e attenzione per i più deboli.

Poco dopo Dylan compone altri importanti successi, anche se Blowing in the wind (1962) viene descritto come il suo primo vero successo, maturato in mutande in una stanza un po’ malconcia e molto bohémienne, insieme a Baez, che capisce, intuisce il genio e lo interpreterà ancora e ancora, anche dopo la fine della loro relazione. Lui le regala Don’t think twice (1963), che lei interpreta per prima, essendo già famosa: questo segna l’inizio di un legame che nella mia fantasia romantica durerà per tutta la vita.

Abbiamo un intreccio di musica e Psicoanalisi, che ho descritto in altra sede[1], qui proposto nei termini dell’anima e della psiche che si librano in accordo con una corporeità “naturale”: gli attori musicisti si pongono come persone normali, nessuno sembra essere eccezionale, e la loro vita bohémienne appare semplice e rivoluzionaria. Si amano, si divertono, fanno l’amore, cantano e suonano come se si trattasse sempre di un inno alla vita, alla giovinezza e ai nuovi tempi che verranno.

La creatività espressa da talenti eccezionali sembra sorgere senza aver bisogno di eccessi o di assunzione particolare di droghe e l’impegno per i diritti civili è genuino, scontato e in sintonia con la vita di questo tipo di artisti.

“L’anima va a piedi”, dice un vecchio adagio indiano, e qui sembra proprio la lentezza il motore del cambiamento, cambiamento esterno per l’inizio degli anni della contestazione, ma anche interno, nel senso della maturazione perseverante dei protagonisti, che non si abbandonano mai alla disperazione. Non sono distruttivi ma sempre e solo creativi e trasformativi.

Questa credo sia la forza del film: lo spazio per la speranza, che non scompare mai, anzi è presente dal primo incontro di Dylan con i suoi mentori e in seguito con le compagne, che  lo hanno aiutato a declinare creativamente la vena malinconica sempre presente nei testi.

A complete unknown è un verso tratto da Like a rolling stone (1965) ed è la canzone che chiude il film, con un sonoro ottimo e potente, mentre Dylan riprende la strada sulla sua potente motocicletta. Questa chiude anche il concerto di Newport, tradizionalmente folk, dopo il quale Dylan rompe con Seeger e si avvia verso melodie più tipiche del blues rock. Avremo l’invasione dei musicisti British, come viene detto nel film: la mia mente va ovviamente ai Beatles, ai Rolling Stones, ai Pink Floyd, ai Led Zeppellin, a Eric Clapton e B.B.King, e a tutto il genere blues-rock, rappresentato nel film da un musicista come Al Cooper, tra gli altri. Arriveranno Woodstock (1969) e gli anni della contestazione mondiale, a partire dal 1968. 

Sappiamo che il carattere di Dylan è introverso, iroso e schivo, non si è presentato infatti a ritirare il Nobel, ma il suo genio, che in due anni lo ha fatto diventare riferimento culturale e politico di una generazione in fermento, ci lascia narrazioni uniche nella storia della musica. Ne occorrerebbe uno nuovo, proprio oggi, proprio a partire da quell’America che non ci piace più e ci spaventa moltissimo.

Febbraio 2025


[1] https://www.centrovenetodipsicoanalisi.it/knotgarden-2024-1-ferri/

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