E il disco infuocato del sole declina nel mare vermiglio.
Ai confini della foresta e dell’abisso, mi perdo nel dedalo del sentiero.
(da il disco infuocato del sole, L. S Senghor)
Da Venerdì 10 giugno a domenica 12, si è tenuta presso il cinema Trevi di Roma la rassegna cinematografica S-cambiamo il mondo, organizzata dall’Associazione Onlus DUN e dalla rivista Eidos cinema e psyche e arti visive, in collaborazione con la Cooperativa Sociale META e il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale, patrocinata da Amnesty International, Ministero dei Beni e Attività Culturali e dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica.
Introdotta da Alberto Angelini, Luigina Malatesta e Annamaria Sassone, oltre alla curatrice Barbara Massimilla, la rassegna ha proposto un ciclo di nove film che hanno permesso, nel corso di tre densi e intensi pomeriggi, un’esplorazione del complesso mondo della migrazione anche grazie al coinvolgimento, durante i momenti di dibattito che hanno contrappuntato i film, con molti dei soggetti, della realtà romana, operanti nel campo.
Attraverso l’efficace linguaggio filmico, espresso in stili diversi (documentario, cortome-traggio, lungometraggio), il pubblico ha potuto compiere un viaggio a tappe all’interno del del tema migrazione, confrontandosi emotivamente con i momenti di passaggio significativi che lo accompagnano, con i pregiudizi che svuotano di senso un fenomeno che non può non convocarci ad una riflessione sul piano umano ed etico (Barbara Massimilla).
L’uomo va e viene dalla notte dei tempi, diceva il più grande poeta africano Leopold Sedar Senghor; ciò che, genericamente, denominiamo migrazione ha in se’ elementi che ci interrogano; come sottolineato dai vari ospiti presenti agli incontri, moderati dalla curatrice Massimilla, rifugiati ed esiliati vivono traumi esterni che riverberano nel mondo interno in modi diversi, in cui si intreccia attualità e condizioni psichiche precedenti alla perdita dei propri punti di riferimento, culturale ed affettivo.
I film e i documentari sono stati opportunamente selezionati per dar conto delle varie sfaccettature legate all’impatto sensoriale, emotivo e ambientale di chi arriva, che non è solo fatto di asimmetrie, di sofferenze, ma è incontro tra logiche culturali, oltre che linguaggi, diversi.
La macchina da presa, dunque, come un occhio capace di guardare al dettaglio e di restituire dignità alla storie di uomini, donne e bambini; attraverso il film Mediterranea (di Jonas Carpignano), ad esempio, si coglie il senso emotivo della ribellione dei migranti di Rosarno, portatori di ferite invisibili, provocate dalla delusione di una fatica che non ha concesso il diritto ad uscire dalla condizione di cattività che, come dall’etimo latino (captivus), non può che spingere il clandestino verso un’identità negativa e verso la distruttività.
Le proiezioni sono state precedute da interventi miranti ad ampliare i temi trattati dai film; l’incontro tra arte e migrazione (con Erica Battaglia, Filomeno Lopes, Sonya Orfalian, Celestino Victor Mussomar), ha evidenziato quanto l’arte sia il tramite per scambiare esperienze complesse e traumatiche, ricerca di nuovi simboli come contenitori di esperienze originarie, rivisitate nella contaminazione, emotiva e semantica della vita in una nuova terra.
I diversi film in rassegna sulla migrazione africana, numericamente rappresentativi della migrazione stessa, hanno permesso di andare da una sponda all’altra del mare, di creare ponti mentali per cogliere la complessità di un fenomeno che da questo lato della sponda rischia di diventare una sequenza di numeri, numeri per chi sopravvive, numeri di chi muore.
Redemption Song, film di Cristina Mantis, ha offerto il punto di maggiore articolazione sulla complessa questione africana, che, sullo sfondo della “porta di non ritorno” dell’isola di Gorè, passaggio simbolico dei tempi della vecchia forma schiavitù, fa cogliere il dramma attuale dei giovani africani che, attratti dal mito del sogno europeo, si trovano, ancora oggi, ad effettuare un viaggio senza ritorno, in assenza dei documenti che farebbero di loro dei liberi viaggiatori. Il film fa cogliere come i colori e l’intensità delle percezioni, è il primo elemento di deprivazione di chi si allontana. Il protagonista del film, promuove una campagna nel suo paese per convincere i giovani a non partire, fermando l’emorragia di risorse umane.
I ritmi e le sonorità africane, che nel film richiamano il contrasto tra l’accoglienza tra danze e musica riservata a chi arriva ospite in terra d’Africa, rispetto a ciò che aspetta chi giunge qui, hanno raggiunto il pubblico da vivo in sala, grazie ai musicisti ospiti che hanno realizzato la colonna sonora (Moustapha Mbengue, Moussa Ndao, Emilio Spataro).
Per il ciclo di film su Memorie di migrazione e attualità, sono intervenuti prima del bel film di De Seta Lettere dal Sahara, Davide Albrigo, Luisa Cerqua, Marzia Mete, Stefano Rulli, Matteo Sanfilippo; la proiezione di Io sono Li (di Andrea Segre), è stata preceduta dall’incontro con Ugoma Francisco, Nicole Janigro, Sara Zavarise, Cecilia Sena Monteiro.
L’itinerario tracciato dal susseguirsi delle immagini delle varie opere filmiche ha coinvolto lo spettatore anche con la poesia presente anche nella drammaticità, all’insegna del “bello in quanto vero” di momenti toccanti, e per questo poetici, come il gesto compiuto da chi sta per partire, di affidare al mare il proprio nome all’interno di una bottiglia, gesto simbolico di passaggio tra un mondo che ti conosce e riconosce e il salto nell’anonimato dell’imbarco, quando già le tappe che l’hanno preceduto, hanno già eroso i confini identitari, rendendo fragile il senso di se’; momenti poetici dell’incontro, in quell’estetica della reciprocità di scambi autentici e affettivi, che accompagna chi migra verso l’integrazione come possibilità di nutrire il proprio senso di esistere, anche in condizioni assai diverse dalla matrice originaria.
La giornata conclusiva è stata introdotta dagli interventi di Alfredo Ancona, Laura Bispuri, Cristina Comencini, Habte Waldemariam sul tema Donna e migrazione, che hanno preceduto la proiezione dei film di due registe: Bianco e nero (Comencini), La vergine giurata (Bispuri).
L’ultima tavola rotonda ha visto al partecipazione di Alfredo Lombardozzi, Stefano Carta, Massimo Germani, che hanno offerto una focalizzazione sulle caratteristiche dell’esperienza clinica mediata dalle differenze culturali, identitarie e dalle qualità del trauma subito dal soggetto.
La proiezione di Fuocoammare, ha concluso la rassegna, opera pluripremiata del regista Rosi, film “girato sul confine più simbolico d’Europa” (Massimilla), l’isola di Lampedusa, della quale restituisce allo spettatore gli interni familiari, la quotidianità dei nativi, sui quali non si avverte l’impatto traumatico degli sbarchi; la camera da presa descrive spazi e tempi diversi nell’isola, in cui uomini e donne vivono le proprie storie locali mentre si compiono gli arrivi per mare. Mentre in un’altra parte dell’isola, gli sbarchi vengono gestiti, i migranti visitati, soccorsi, schedati, perquisiti, un bambino isolano caccia con la fionda, avventurandosi di notte, senza timore, in giro per l’isola che conosce, mirando e sparando, nell’ultima scena del film, con un fucile immaginario verso il cielo. Per chi vive a Lampedusa, sembra dirci il regista, i nemici non sono quelli che arrivano per mare.
Clelia De Vita analista gruppo PER (Psicoanalisti Europei per i Rifugiati)