Autore: Elisabetta Marchiori
Titolo: “The Queen’s Gambit” (“La regina degli Scacchi”)
Dati sulla serie: creata da creata da Scott Frank e Allan Scott, regia di Scott Frank, USA, 2020, 7 episodi, Netflix
Genere: drammatico
Al livello più alto, gli scacchi sono un talento per controllare cose prive di relazione.
È come controllare il caos.
(Garry Kasparov)
Luca arriva in seduta piuttosto stropicciato: “Ho passato la notte con la ragazza che gioca a scacchi”, esordisce. La ragazza di cui mi sta parlando è Beth, la protagonista della miniserie televisiva di Netflix “La regina degli scacchi”, il cui titolo originale, “The Queen’s Gambit” (il gambetto di donna) richiama a una mossa di apertura del quindicesimo secolo. È stato il mio Super-Io piuttosto intransigente che ha evitato mi presentassi altrettanto stropicciata al lavoro la mattina successiva, impedendomi di essere risucchiata dal binge-watching, la visione ininterrotta di tutti e sette gli episodi in una sola notte: la tentazione è stata forte. In compenso l’ho vista due volte in una decina di giorni.
Ma in tanti, pare, siamo rimasti svegli, o avremmo voluto farlo; quotidiani, riviste e rete sono sovraffollati di commenti, recensioni, curiosità e rivelazioni di ogni genere su questa serie di enorme successo. Persino il Vittorio Feltri di Crozza, durante la puntata di venerdì 20 novembre, l’ha nominata!
Da settimane stabilmente al primo posto in classifica sulla piattaforma, “La regina degli scacchi” non sbaglia una mossa: la regia è impeccabile e brillante, la sceneggiatura convincente, con dialoghi essenziali ed efficaci (con tanto di citazioni shakespeariane), l’ambientazione e i costumi anni sessanta straordinari, la colonna sonora di Carlos Rafael Rivera perfetta nell’accompagnare ogni scena, rispettando le pause necessarie di silenzi e rumori.
Tratta dall’omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis (autore, tra l’altro de “Lo spaccone” da cui il celebre film con Paul Newman e de “L’uomo che cadde sulla terra” da cui è stato tratto anche l’altrettanto celebre film con David Bowie: tutti titoli esauriti, introvabili al momento) racconta la storia di Beth Harmon che, da ragazzina rimasta orfana a nove anni e cresciuta in un orfanotrofio, per poi essere adottata da adolescente, diventa da giovanissima una star affermata nel mondo tutto maschile degli scacchi. Pare che sia una storia in parte autobiografica (Tevis era un alcolista e un mediocre giocatore di scacchi), più che ispirata a uno dei tanti bambini prodigio nel campo.
I titoli degli episodi fanno riferimento a termini scacchistici e sono assolutamente appropriati nel seguire le tappe evolutive della protagonista: Apertura, Cambio, Pedone doppiato, Mediogioco, Forchetta, Aggiornamento, Finale.
Il primo episodio si apre con una scena in cui Beth, una straordinaria Anya Taylor-Joy, che emerge fradicia (bagnata e ubriaca) dalla vasca da bagno di un hotel di lusso: dopo una notte brava, deve battersi contro il campione russo Borgov, di fronte al quale arriva ansimante e sconvolta. Dall’incontro dei loro sguardi si apre la storia che l’ha portata fino a lì. La storia di una bambina di cui la madre biologica non sa cosa farsene e tenta di uccidere insieme a lei; di cui la madre adottiva Alma (Marielle Heller), che ha perso il figlio naturale, saprà cosa farsene quando capisce che è un talento sfruttabile capace di mantenerle entrambe dopo l’abbandono del marito (e padre adottivo).
Avrebbe potuto annegare, Beth, immersa nel dolore, stordita dalle benzodiazepine e dall’alcool e, invece, annaspando e lottando, emerge, ricade, si risolleva, vince.
È in orfanotrofio che vede Mr. Shaibel (Bill Camp) il custode, giocare da solo a scacchi nel seminterrato dove è mandata a sbattere i cancellini della lavagna (il premio per i più bravi della classe, me lo ricordo!). Con qualche riluttanza (“non gioco con gli estranei”) quell’uomo burbero si lascia sedurre dalla determinazione di Beth, che mostra un intuito eccezionale nel comprendere le mosse e vuole che lui “le insegni” a giocare.
Beth non possiede una vera scacchiera su cui esercitarsi, ma in compenso ha una fervida immaginazione, esaltata dagli psicofarmaci distribuiti in orfanotrofio per tenere sedate le ragazzine. La sua scacchiera compare la notte, sul soffitto: scendendo come stalattiti, pedoni, torri, cavalli, alfieri, re e regine si materializzando davanti a lei e le permettono di giocare le sue partite.
In breve tempo, inizia per lei una vita di trionfi a competizioni nazionali e internazionali, viaggi, interviste. Ma Beth, come dice l’imperscrutabile e depresso Borgov, “è un’orfana. Una sopravvissuta. È come noi, perdere non è contemplato. Altrimenti che avrebbe nella vita?”.
Beth è una persona traumatizzata, che fatica ad entrare in contatto affettivo autentico con gli altri: si muove nel mondo con grazia (la Taylor-Joy è una ballerina), ma anche con estremo distacco, misteriosa come un gatto, lontana come una aliena (la donna che cadde sulla terra?). Non può essere toccata intimamente, deve anestetizzarsi se non si muove come dentro le caselle della scacchiera, l’unico mondo che può dominare e controllare.
Le partite a scacchi che la protagonista gioca (basate su partite reali e con la consulenza di grandi scacchisti) sono girate come battaglie, e lasciano lo spettatore con il fiato sospeso. Da ballerina qual è, la Taylor-Joy muove i pezzi a passo di danza, sgominando i suoi avversari senza scomporsi quasi mai.
Un altro merito della serie è quello di permettere ai profani di comprendere la natura di un gioco che è intuito e dedizione, genio e studio profondo, conoscenza di sé e, alla fine, anche degli altri. Perché il finale, per Beth, è proprio questo: aprirsi all’altro. Magari, ecco, forse l’ultimo episodio è eccessivamente fiabesco, ma non per questo la storia perde la sua coerenza narrativa.
Un’ultima idea vorrei condividere, anche se altri spunti di riflessione non mancherebbero: mentre cercavo di mettere insieme le idee per scrivere, e sperando mi si riordinassero sul soffitto (ma non è stato così) come i pezzi degli scacchi, mi è venuta in mente la Regina Rossa di “Alice attraverso lo Specchio”. Ecco dunque chi mi ricordava la rossa Beth! Quando Alice si accorge che il luogo che sta esplorando è diviso in tanti quadrati esclama: “Ma guarda, è segnata proprio come una grande scacchiera! […] È un’enorme partita a scacchi questa che giocano … in tutto il mondo … sempre che questo sia il mondo”.
E quanto è stato scritto in ogni epoca, paragonando la vita ad una enorme partita a scacchi!. Proseguendo nella rilettura del fantastico libro di Carroll, mi son di lì a poco imbattuta in quella che è forse la frase più citata dell’autore: “Qui, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio!”. È quanto dice la Regina Rossa ad Alice quando, fermate dopo una corsa a perdifiato, la bambina osserva che non si sono mosse. È quello che è stato chiamato “effetto Regina Rossa” (diventato un’ipotesi evolutiva e usato da storici ed economisti): per rimanere nella propria posizione bisogna muoversi più in fretta degli altri se si vuole stare al passo.
Ecco, forse questo è un altro elemento che rende “La Regina degli Scacchi”, così coinvolgente: in questo momento, in cui la pandemia ci costringe a stare fisicamente fermi e ci fa temere di precipitare nel caos, ci invita a muoverci in maniera diversa nella scacchiera della nostra mente, a usare la fantasia, la creatività, a coltivare i nostri talenti, a studiare nuove mosse e … a correre almeno il doppio.
Novembre 2020