a. Premessa
In queste note proponiamo di analizzare i film che trattano di psicoanalisi non come elementi descrittivi, ma come dispositivi comunicativi iconici. Un film, quindi, descrive un evento secondo un linguaggio evocativo più simile al sogno che alla comunicazione verbale. Pertanto la psicoanalisi finora ha usato il cinema come dispositivo capace di presentare storie e, fra queste, spesso gli psicoanalisti hanno ricercato e facilmente individuato storie emblematiche che in modo allegorico sembravano svelare e descrivere le dinamiche dell’inconscio (Gabbard, 1997a). Noi tenteremo di proporre e documentare una nostra tesi che non si sofferma sulle ampie applicazioni della psicoanalisi al cinema, ma si orienta soprattutto verso il possibile uso creativo dei film da parte della psicoanalisi.
Pertanto, in un primo momento ci occuperemo del film sul piano strutturale in quanto linguaggio iconico (Boccara, Riefolo, Gaddini, 2000) e successivamente, prenderemo in considerazione quei film che negli anni si sono occupati di descrivere la psicoanalisi e gli psicoanalisti al lavoro. Ci soffermeremo, quindi su questo tipo di film per analizzarne gli attacchi, ma anche i suggerimenti che i registi, come sognatori dei loro film portano alla psicoanalisi e agli analisti..
La particolare lettura che proporremo nei riguardi dei film che trattano di psicoanalisti al lavoro, ci porterà a segnalare come il cinema sia da sempre stato fedele e sensibile depositario (Pichon-Riviére) di alcune delle preoccupazioni più significative che hanno attraversato negli anni il campo psicoanalitico: questi film si occupano particolarmente degli elementi frustranti del setting, della asimmetria e innaturalità della relazione analitica e della gestione degli affetti – sia propri che del paziente – da parte dell’analista. Negli esempi clinici e cinematografici che proporremo, tra i possibili elementi che risultano frustranti per i pazienti e difficili per gli analisti abbiamo scelto di occuparci delle dinamiche affettive fra analista e paziente, ma la tesi è estensibile, sul piano metodologico, ad ogni altro tema che i film possano trattare.
b. Alcune considerazioni di metodo
Proponiamo che un film appartenga al campo degli elementi iconici e che tale campo si strutturi secondo modalità tipiche della comunicazione iconica (rapporti sintagmatici, di associazioni lineari di elementi visivi contigui, di simmetria, ecc…), differenti da quelle dell’astrazione simbolica che caratterizza il discorso verbale ed il pensiero.
Come per il sogno distinguiamo elementi descrittivi (manifesti), dal progetto comunicativo e trasformativo inconscio (elementi latenti).
La tesi che tentiamo di proporre è semplice. Un film sulla psicoanalisi, come un sogno1, ha due chiavi di lettura: come storia organizzata e come dispositivo per creare e cogliere pensieri (Bion). Nel primo caso vi troviamo sia il comune spettatore che lo psicoanalista che tenta di descrivere l’inconscio in azione, mentre nella seconda categoria troviamo l’analista che, attraverso il dispositivo del cinema, tenta di contattare aspetti sospesi della propria identità depositati nel campo della cultura comune. In questo caso l’analista usa il cinema come un vero e proprio sogno che un regista fa sulla psicoanalisi. Vogliamo sostenere che un film, per un analista, è importante per ciò che evoca e non per ciò che dice. La difficoltà, semmai, riguarda l’analista costretto alla duplice posizione – a nostro parere irriducibile – di spettatore e di clinico.
Il problema che si pone è di fondamentale importanza e percorre l’intera storia della psicoanalisi. Il tema riguarda i punti di vista della psicoanalisi sulle relazioni fra sogno e modalità di organizzazione mentale: il sogno è da intendersi, come proponeva Freud, come modalità finalizzata al consolidamento difensivo di una struttura mentale (l’Io nelle sue interazioni conflittuali con Es, Super-Io e realtà) che si organizza su dinamiche pulsionali? O il sogno, come proporrebbe Bion ed alcuni esponenti della psicoanalisi contemporanea (Bollas, 1987; 1992; Modell, 1990; Ferro, 1996; 1999, 2002), è un dispositivo strutturante l’organizzazione mentale capace di determinare una trasformazione da elementi sensoriali concreti verso elementi che, assimilando caratteristiche esperienziali del soggetto, si collegano ad altri elementi contigui (la funzione a di Bion, il sognare di Bollas, il metaforizzare di Modell, …)?
Cercheremo di proporre come entrambe queste posizioni siano presenti nella funzione del cinema/sogno: una funzione di difesa insieme ad una operazione creativa. La funzione difensiva del sogno pensiamo sia stata abbondantemente analizzata sin dagli esordi della psicoanalisi e corrisponde essenzialmente alle modalità di funzionamento nevrotico. La funzione creativa del sogno, da Bion in poi viene a più riprese sottolineata, ed è anch’essa una tesi sufficientemente consolidata. In queste note cercheremo di sottolineare i nessi che tale funzione creativa deriva dal proprio registro di sensorialità legata alla funzione dell’immagine come elemento che precede il pensiero: “…Il contenuto rappresentativo non viene pensato, bensì trasformato in immagine sensoriale” (Freud, 1899, 489)2.
Un’ultima premessa. Il concetto di depositario (Pichon-Riviére) è centrale nel metodo di analisi che proponiamo. Il depositario è un oggetto che contiene e autorizza la simbiosi fra caratteristiche contrastanti di una serie di oggetti prima che questi procedano verso la discriminazone reciproca. Il cinema che si occupa di psicoanalisti lo rappresentiamo come depositario di elementi distintivi e strutturanti della psicoanalisi. Questi elementi che, nel cinema, troviamo posti in relazione simbiotico/agglutinata sono da un lato oggetti persecutori, di resistenza al cambiamento (la realtà che impone la concretezza e impedisce ogni comunicazione emotiva) e dall’altro oggetti positivi e vitali, ovvero un analista capace di condividere col paziente affetti intimi: “La separazione dal depositario richiede l’elaborazione della relazione simbiotica e quindi, in altri termini, l’elaborazione dell’oggetto agglutinato” (Bleger, 1962, 86). La fondamentale funzione stabilizzante del cinema in quanto depositario è precisa: “quando la simbiosi si rompe in maniera brusca (cioè quando viene perso bruscamente il depositario), può esserci un indebolimento dell’agglutinazione e ci si può quindi trovare di fronte al pericolo di una dissoluzione psicotica” (id.,87).
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Tre livelli di possibile relazione fra psicoanalisi e il cinema
Otto Rank, commentando il film ““Der student von Prag” di Stellan Rye (1913), coglieva nella preoccupazione di Baldovino per la propria immagine riflessa, la metafora psicoanalitica del doppio. Questa prima modalità di uso interpretativo del film, e in genere dell’opera d’arte, è stata in seguito molto usata negli anni ed è tuttora molto diffusa fra gli psicoanalisti3.
Questa posizione, nel tempo molto diffusa, si basa sulla attribuzione unilaterale di una funzione simbolico-metaforica al linguaggio cinematografico, attraverso una lettura psicoanalitica di un evento che, comunque, è stato pensato e realizzato per fini assolutamente estranei alla psicoanalisi4 e che, fondamentalmente, alla psicoanalisi non chiede di essere analizzato.
Il problema che emerge da questo atteggiamento complessivo della psicoanalisi verso il cinema è che, in entrambi i casi, si tratterebbe di una colonizzazione psicoanalitica di eventi che alla psicoanalisi non chiedono nulla e che, in molti casi, come, ad esempio nella reazione di Jensen a Freud, nonostante lo svelamento psicoanalitico delle eventuali dinamiche inconsce dell’opera d’arte, trovano l’autore incredulo a difendere le proprie posizioni.
Oltre alla presentazione esplicita di storie cliniche nei film di tutti i generi, il cinema ha spesso ospitato “ psicoanalisi” o “psicoanalisti” nella trama dei suoi racconti.
Una vicenda clinica è diventata spesso un potente motivo narrativo di alcuni film e tante volte abbiamo visto pazienti, terapeuti e veri e propri “psicoanalisti” descritti, nelle varie epoche, secondo i diversi canoni che la cultura generale permetteva di rappresentare e di utilizzare (Argentieri, Sapori 1988; Gabbard, Gabbard, 1999).
In questo caso le posizioni sono esattamente ribaltate rispetto alla situazione descritta prima: è ora il cinema ad usare la psicoanalisi a cui, fondamentalmente, non chiede alcuna autorizzazione se non di adeguarsi – secondo modalità più o meno sottili – alle proprie regole e alla propria logica. Questo tipo di interazione fra cinema e psicoanalisi ha avuto il suo prototipo nella collaborazione di Sachs e di Abraham al film “Geheimnisse einer Seele" (1926) di G.W. Pabst. (Rice, 1995).
In questo caso, la psicoanalisi viene trattata secondo una modalità che potremmo definire “realista” prestandosi alle infinite possibilità di trame che attraversano i vari film. Ne viene inevitabilmente sacrificato – come sospettava Freud – lo spirito autentico della psicoanalisi che non può essere rappresentata al di fuori della relazione analitica: “l’obiezione principale rimane quella che non è possibile fare delle nostre astrazioni una presentazione plastica che si rispetti un po’ […] e non daremo comunque la nostra approvazione a qualcosa di insipido”(Freud, 1925, in Abraham e Freud, 1965). Nella maggior parte di questi casi, il film può raccontare la storia di una terapia o le vicende di un analista e di un paziente, ma essendo centrale lo strumento scopico del cinema, esso non riesce a comunicare il senso di un’analisi: “il contenuto di un film è un romanzo, una commedia o un’opera. Ma l’effetto della forma cinematografica non ha nulla a che fare con il suo contenuto programmatico…” (McLuhan, 1964, 27).
Una terza possibilità di relazione fra cinema e psicoanalisi potrebbe essere, a nostro avviso, quella di considerare un film che tratta di psicoanalisi non più come un racconto, ma come un sogno. In questo caso si tratterebbe, a differenza delle prime due modalità, di una relazione simbiotica fra i due ambiti (Bion, 1970, 131) e sarebbe una modalità di uso del cinema esclusiva dello psicoanalista nell’esercizio delle sue funzioni. Per la psicoanalisi il cinema può essere, prima che un atto descrittivo o di denuncia, un vero e proprio sogno di un regista come esponente della cultura comune, depositario di elementi b in trasformazione finalizzati – se colti positivamente – alla emancipazione di tesi che, nel tempo, occupano particolarmente la preoccupazione degli psicoanalisti5.
Grazie allo strumento scopico, il film si colloca a livelli di comunicazione iconica, condensata e polivalente rispetto alla comunicazione simbolica e verbale6 (McLuan, 1964). In quanto tale, il cinema nella descrizione del proprio oggetto, coglie aspetti regrediti, sospesi alla comunicazione verbale. Quindi in ogni film che si occupi di psicoanalisi o psicoanalisti, potremmo distinguere un messaggio manifesto che spesso – in verità – risulta poco rispettoso del contesto in cui, e attraverso cui, la psicoanalisi si compie. Vi è poi un secondo e più significativo messaggio latente, in cui, come in un sogno, si annida una funzione potenzialmente trasformativa del film verso la psicoanalisi. L’errore di fondo, a cui spesso si assiste, è che un film che tratti di psicoanalisi venga assunto dagli stessi analisti come discorso sull’analisi, mentre esso può essere usato dagli analisti come sogno sulla psicoanalisi: nel primo caso vi è una descrizione di un evento, nel secondo si assiste alla emergenza di un problema sospeso che attende di essere compreso e definito.
La differenza metodologica che proponiamo nell’uso psicoanalitico del cinema si fonda sulla differenza comunicativa del descrivere rispetto all’evocare, ovvero la “transizione dalle connessioni lineari alle configurazioni” (McLhuan, 1964, 21).
Benché l’aspetto pedagogico non può essere totalmente escluso dal processo analitico, sappiamo che la psicoanalisi, come dispositivo trasformativo attiene soprattutto al campo evocativo che permette al paziente di usare la propria esperienza e cogliere i propri nessi.
Un esempio. Nel film La stanza del Figlio (2001) di Nanni Moretti, vi è una sequenza in cui l’analista si reca a casa di un paziente il quale lo aveva contattato telefonicamente allarmandolo molto. Sul piano descrittivo questa sequenza può risultare “irritante” per un analista il quale la leggerà come attacco da parte del regista e della cultura comune alla naturale frustrazione dovuta alla asimmetria della relazione terapeutica. Il film (il sogno) del regista risulterebbe così una acuta difesa e resistenza verso le potenzialità trasformative dell’analisi confrontando l’analista con gravi e potenti questioni di realtà e obbligandolo all’acting. Ma, pensiamoci bene! Questa sequenza, nel film “funziona”, mentre un’altra che risultasse più rispettosa – sul piano formale – delle caratteristiche strutturali del processo analitico sicuramente “non funzionerebbe”. La differenza sarebbe – a nostro parere – nel fatto che una descrizione “corretta” avrebbe il senso di un dispositivo pedagogico e non creativo. Il fatto che la scena – per così com’è – funzioni è dovuto ad elementi evocativi e creativi che la sequenza trasmette oltre il contenuto manifesto del film (del sogno). Se si trattasse di un brano di un sogno di un paziente, sicuramente saremmo colpiti dalla “improbabilità” di questa sequenza: ne intepreteremmo subito il progetto difensivo che pone l’analista in posizione subalterna rispetto alla realtà e ai bisogni pulsionali del paziente e approfondendo l’analisi del sogno ne scorgeremmo i suggerimenti creativi. Pensiamo che la scena “funzioni” perché riesce ad evocare, prima che a descrivere (Boccara, Riefolo, Gaddini 2000), la fatica e la preoccupazione di un analista di fronte alle sofferenze e al potere dei pazienti e perchè propone anche la disperazione e la irritazione dell’analista verso la difficoltà del processo analitico. Vogliamo sostenere un profonda questione di metodo: un film (come un sogno) non può essere analizzato secondo il codice logico del discorso, ma secondo il codice evocativo delle emozioni che è il solo codice che guida la dinamica di base delle libere associazioni.
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Il sogno del regista
Pensiamo che la nostra tesi, a questo punto, sia abbastanza chiara: sul piano strettamente psicoanalitico è parziale considerare i film che parlano di psicoanalisi come documenti sulla psicoanalisi: tali film sono un potente dispositivo che può permettere alla psicoanalisi di emanciparsi, nel senso di riflettere su se stessa, qualunque sia (come in un sogno) il contenuto manifesto. Tale contenuto va analizzato strutturalmente e non solo interpretato metaforicamente. La differenza sostanziale è se cogliere il film come appartenente a elementi della psicoanalisi o come racconto sulla psicoanalisi. In quest’ultimo caso (come nei prodotti delle organizzazioni nevrotiche) non bisogna attendersi molta benevolenza da parte dei registi e degli artisti in genere.
Nel film “ The man who loved women ” (1983 ) di B. Edwars, un reale terremoto sorprende Julie Andrews e Burt Reynolds durante la seduta psicoanalitica. L’esplicitazione del panico di entrambi facilita l’irruzione nel campo analitico di una esplosione di affetti che nel tempo trasforma la relazione tra analista e paziente – fino ad allora rispettosi di una formale distanza ed astinenza. L’analista avverte il suo paziente che “potrà avere il suo amore, ma perderà l’analista”. David, il paziente, ovviamente risponde che: “ne vale la pena!”.
Se questo fosse il brano di un sogno portatoci da un paziente, non tarderemmo a coglierne il fondamentale conflitto edipico che ne è sullo sfondo e ci chiederemmo come mai trovare l’amore debba minacciare il nostro diritto ad essere sostenuti. Come analisti, da questo sogno, cogliamo il suggerimento a riflettere sulla possibilità che la partecipazione affettiva dell’analista non debba intaccare la solidità e la verità del processo terapeutico insieme alla nostra identità di analisti e ci sentiamo costretti a cimentarci con un problema certamente spinoso: il film/sogno pone un problema e segnala un campo in trasformazione prima che descrivere l’esito di un processo. In questa linea il film è in parte una difesa maniacale verso il rischio di perdere sostegni vitali, mentre, su un altro versante che riguarda in modo specifico gli psicoanalisti, è la intuizione da parte del regista/sognatore di un’area continuamente aperta e critica nella riflessione psicoanalitica: l’area in cui, nel gioco obbligato della relazione analitica, gli analisti si presentano vulnerabili ed i pazienti possono sperimentarsi potenti.
Un paziente, all’inizio della sua analisi, racconta un sogno: “vedo un gruppo di uomini che mi deridono ed uno che mi guarda rimanendo in silenzio, e sento che mi prende in giro” Questo stato affettivo sospeso ed indescrivibile da parte del paziente può essere letto solo attraverso il recupero di immagini dai connotati affettivi ben noti della propria esperienza: “Mi viene in mente mia madre a cui, tempo fa, comunicai la mia intenzione di prendere la patente: mi disse che mi avrebbe aiutato economicamente, ma non mi sembrò molto entusiasta!”
In un film può accadere qualcosa di molto simile. Analizziamo qualche frammento fra i tanti possibili.
In una scena di “Spellbound” (1945) di A. Hitchcock, l’appassionata giovane psicoanalista Ingrid Bergman, raggiunto Gregory Peck in un albergo dove si era rifugiato per paura di essere scoperto, gli dice abbracciandolo: “tutta la giornata è stata un lungo incubo angoscioso, lascia che ti rimanga vicino come medico curante… non ha niente a che fare con l’amore”.
Anche questo passo del film, come quello precedente, se colto sul registro concreto, descrive la tensione contraddittoria fra relazione terapeutica ed amore sensuale, con il prevalere inevitabile di quest’ultimo, ma ciò significherebbe limitarsi a leggere una immagine (un film) come un elemento descrittivo e, riportato al frammento del sogno del paziente, ci obbligherebbe a leggere descrittivamente tale frammento come l’eplicitazione delle paure persecutorie del paziente nella stanza di analisi. Ma il sogno, sappiamo bene, è qualcosa di più! Infatti, le immagini del sogno del paziente si associano, per contiguità affettiva, ad altre immagini che nella sua esperienza intrapsichica hanno segnato una sospensione evolutiva ora rappresentata attraverso una madre che non investiva in lui e ne temeva le potenzialità creative. Così, il passo del film citato, se usato secondo un registro iconico, potrebbe diventare una sollecitazione per l’analista ad associazioni, per contiguità affettiva e analogica, di ambiti sospesi ed indefiniti del proprio lavoro. Su indicazione del film l’analista può trovarsi a riflettere (e a sognare) sulla effettiva e continua difficoltà ad usare la propria partecipazione affettiva nel processo analitico (Ferenczi, 1928; Heimann 1975; Borgogno, 1999; Bolognini, 1999;) proprio come, su sollecitazione del sogno e dopo aver ricontattato antiche angosce persecutorie, il paziente che recupera l’emozione antica del progetto di acquisire la patente, ripropone quella emozione sospesa alla attenzione della coppia analitica perché – questa volta – se ne possa prendere cura.
Un’ultima considerazione. Il cinema come sogno sulla psicoanalisi, a ben guardare, non è degli psicoanalisti, ma dei registi e, attraverso loro, della gente che appartiene alla cultura comune condivisa. Gli psicoanalisti possono usarlo a proprio vantaggio. Alla psicoanalisi questo sogno arriva come rappresentazione da parte del sognatore-regista di interazioni che hanno colto nell’analista zone non elaborate e concrete. Un film è un sogno di un paziente (il regista) che nella riattualizzazione del transfert, tenta di sintonizzarsi e correggere inconsciamente alcune frustrazioni che gli derivano da inadeguatezze e, spesso, veri e propri errori, o carenze, colti nell’analista. Questi “errori”, quindi, si connotano come “frustrazioni ottimali” attraverso cui l’analista può riconoscere i propri inevitabili limiti e il paziente sperimentare una accresciuta capacità di recupero empatico (Kohut, 1984; Fonaghy, Target, 2000).
Nel nostro lavoro clinico sono numerose le occasioni in cui un paziente ci propone la propria versione su quanto ci sta accadendo e ciò è utile all’analista per cogliere il proprio assetto mentale in quel momento e al paziente nel sostenere la preoccupazione per i propri oggetti. Una paziente borderline mi dice: “oggi la sento molto nervoso, dottore! O si calma o è meglio che io vada via!”. Un’altra paziente, nel salutarmi al suo arrivo, dopo che un collega mi aveva comunicato una notizia per me dolorosa, appena sdraiatasi sul lettino mi dice: “Lei non è sereno, oggi, dottore! L’ho sentito quando mi ha aperto la porta e non mi ha guardata!”.
Gli psicoanalisti accettano oramai serenamente di cogliere dai pazienti considerazioni come queste, considerandole non come semplici proiezioni, ma come elementi proiettivi tra paziente ed analista, resi possibili da un varco sensibile che coglie aspetti veri e frustranti dell’analista. Nei film che trattano di psicoanalisi accade spesso qualcosa di simile e, a nostro avviso, poco cambia se le considerazioni sull’analista sono aggressive o benevoli.
In “Deconstructing Harry” (1997) di W. Allen, c’è una scena in cui l’analista durante una seduta, disinteressandosi totalmente del paziente sul lettino, continua a litigare col marito che le ha appena confessato di avere avuto una relazione con una sua paziente. Una tale situazione analitica, ad un livello descrittivo, non può non risultare come estremamente aggressiva verso la psicoanalisi. Invece, se assunta come sogno sulla psicoanalisi, la stessa sequenza proporrebbe l’intuizione da parte del regista di un’area privata dell’analista che, inevitabilmente, non può essere tenuta “fuori della stanza di analisi” e che forse, gli stessi analisti nel tempo hanno tenuto a presentare come “estranea” e “interferente” verso il processo interattivo.
La scena del film, più che irritare difensivamente, può permettere all’analista di riflettere su un uso discreto e rispettoso delle proprie emozioni derivanti dalla propria vita privata che, altrimenti, irromperebbero violentemente nella stanza d’analisi. In ogni caso, come nei due frammenti clinici riportati, è fondamentale la preoccupazione di fondo che il sognatore (il regista) attiva verso i suoi oggetti prendendosene cura, cogliendo aspetti veri dell’analisi che lo stesso analista fa fatica a riconoscere.
In altri due film recenti possiamo cogliere lo psicoanalista particolarmente preoccupato nella gestione dei propri moti affettivi verso il paziente.
In The Prince of Tides (1992) di B.Streisand, il paziente Nick Nolte aggredisce la seducente analista Barbra Streisand: “Lei evita di rispondermi in un modo stronzissimo… Non risponderò a nessun altra domanda finché lei non avrà risposto alla mia!”. L’analista non coglie l’occasione offertale dal paziente per modificare il proprio assetto di formale “neutralità” e per mettere in discussione il proprio atteggiamento aggressivo verso il paziente, ma gli risponde simmetricamente: “perché non si siede e ascolta? Sempre se non è molto stanco, dopo questo suo sfogo infantile?”.
In Don Juan de Marco (1994) di J. Leven , il contributo del paziente viene, invece, colto: “E voi, amico mio, chi siete? – chiede Johnny Depp, alla fine del trattamento, al suo terapeuta : “Io chi sono? Io sono don Octavio del Flores”- risponde Marlon Brando- “sposato con Tania Lucita, la luce degli occhi miei, e voi, amico mio, avete visto attraverso tutte le mie maschere!” .
Una prima lettura, che colga il messaggio descrittivo delle scene del film, segnalerebbe – in entrambi i casi – la sostanziale incapacità dell’analista ad usare gli affetti come elementi trasformativi nel processo analitico: il primo film presenta un analista aggressivo, incapace di sostenere la necessaria asimmetria nella relazione col paziente mentre il secondo propone l’abdicare dell’analista al fascino esuberante del proprio paziente. Una seconda lettura, che usi questi film come frammenti di sogni coglie delle differenze e, soprattutto un processo trasformativo in atto. Entrambi i film segnalano l’intuizione7 del regista rispetto al potere delle emozioni e degli affetti reciproci fra paziente e analista nel processo analitico. Nelle due scene proposte vi è la descrizione delle polarità estreme attraverso cui il campo degli affetti può organizzarsi: la violenza e la sessualizzazione nella prima contro la benevolenza e la tenerezza (Freud, 1905, 189; Freud, 1912, 180) della seconda. Prima che essere un attacco alla psicoanalisi, i due film riconoscono che gli affetti rappresentano il campo di azione del processo analitico. Infine, nella differenza della trama dei due film i registi sembrano cogliere un processo in atto: la psicoanalisi si evolve da una posizione in cui l’analista è il potente detentore delle ragioni dell’inconscio (il primo film), verso un campo di relazioni tra analista e paziente in cui l’inconscio emerge gradualmente non come disvelamento, ma come costruzione reciproca della coppia analitica. Il secondo film, come molti altri che negli ultimi anni sono sempre più frequenti sullo schermo cinematografico, è fedele depositario di una preoccupazione teorica fondamentale della psicoanalisi contemporanea in cui il modello unico, tipico della psicoanalisi originaria, o ‘classica’, dell’analista come ‘schermo opaco’ (blank screen) si è da tempo affiancato ad una concezione assai più articolata delle sue funzioni: le fantasie e gli affetti del paziente non trovano nell’analista semplicemente uno specchio, su cui riflettersi, ma anche un soggetto che interviene su di lui con un contributo originale (Bordi, 1995). Lo “schermo vuoto”, la neutralità e l’anonimato vengono regolarmente descritti al massimo come ideali psicoanalitici, quando non come illusioni (Mitchell, 1993). I registi colgono questo processo come “sensazione” e le sensazioni, come intuiva Bion, sono immediatamente colte dalle immagini per poi diventare pensieri.
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In sintesi
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Abbiamo inizialmente proposto che un film che si occupi di psicoanalisi non debba essere letto come testo (o discorso) sulla psicoanalisi, ma che possa essere letto come se fosse un sogno sulla psicoanalisi.
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In questo senso il contenuto manifesto del film ha una funzione evocativa, prima che definitoria o dichiarativa, che permette l’accesso al contenuto latente.
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Come per un sogno, l’analisi di un film individua un progetto di elaborazione difensiva (Freud, 1899) e un progetto di trasformazione di elementi sensoriali b in elementi a (Bion, 1963): un film che parli di psicoanalisi, come un sogno, può attivare immagini e pensieri che permettono di rendere rappresentabili e di affrontare ambiti delicati, sospesi e non esplorati della specificità del lavoro analitico.
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Infine, analizzando, secondo il metodo da noi suggerito, quei film che a vario livello di qualità si occupano di psicoanalisi e particolarmente di psicoanalisti, ne emerge che il cinema risulta un potente depositario delle preoccupazioni teoriche che, negli anni, impegnano il mondo psicoanalitico. I film segnalano, a questo punto, uno stato sospeso ed è come se, fedelmente ci indicassero come tale preoccupazione attraversi ampiamente tutto il mondo della psicoanalisi. Attraverso il messaggio latente dei film possiamo cogliere, ad esempio, le preoccupazioni della istituzione psicoanalitica mentre si emancipa da un modello di relazione col paziente asettica ed esplicativa e si introduce sempre più nel gioco reciproco degli affetti. Il cinema, in questi ultimi anni, sembra cogliere una maggiore serenità degli analisti nel mettere in gioco le proprie emozioni e nel conoscere il proprio posto nel percorso analitico attraverso il vertice dei loro pazienti: “Dimmi perché sei triste – chiede il piccolo paziente di The six sense (1999) al suo terapeuta. Questa volta l’analista non si difende ed indaga il punto di vista del suo interlocutore: “cosa te lo fa pensare?” Il paziente sorprende quindi l’analista che ora è in gioco: “lo leggo nei tuoi occhi”.
FILMOGRAFIA
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Lo studente di Praga (1913) [ Der student von Prag]di Stellan Rye
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I misteri dell’anima (1926) [Geheimnisse einer Seele] di G. W. Past
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Io ti salverò (1945) [ Spellbound] di Alfred Hitchcock
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Il libro della giungla (1967) [The Jungle Book] di Wolfgang Reithermann
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I miei problemi con le donne (1983) [ The Man Who Loved Women] di Blake Edwards
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Il principe delle maree (1992) [ The Prince of Tides] di Barbra Streisand
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Don Juan De Marco maestro d’amore (1995) [ Don Juan De Marco ] di Jeremy Leven
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Smoke (1995) [Smoke]di Wayne Wang
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Harry a pezzi (1997) [Deconstructing Harry] di W. Allen
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Una relazione privata (1999) [Une Liaison Pornographique] di Frederic Fonteyne
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Il sesto senso (1999) [ The six sense] di M.N. Shymalan
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La stanza del figlio (2001) di Nanni Moretti
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1 In generale la tesi è estensibile all’opera d’arte, ma in questa sede ci limiteremo ad analizzare solo le particolarità del dispositivo iconico legato al cinema.
2 Reciproca a questa affermazione è: “… se però i ricordi ridiventano coscienti, non mostrano alcuna qualità sensoriale” (Freud, 1900, 493).
3 “Il cinema… può esprimere in un linguaggio figurativo chiaro ed evidente… anche certi fatti psicologici e relazioni che il poeta spesso non può esprimere chiaramente con parole” (Rank, 1914).
4 Basterebbe, ad esempio introdurre il parametro della relazione analitica in film come “Il libro della giungla” (1967) o in “Smoke” (1995) fino al recente film “Una liaison pornografique”(1999) che le storie narrate assumono esattamente (ed incredibilmente) le caratteristiche di un processo terapeutico persino perfettamente ortodosso.
5 In questo caso, comunque, concordiamo con gli studiosi (soprattutto critici cinematografici) che sostengono che “il film non è un sogno” (Carroll, 1988; Bordwell, 1989), mentre proponiamo che possa avere la funzione del sogno (ovvero: viene reso sogno – in questo caso – da un analista bisognoso di immagini).
6 Si tratta di una considerazione già esplicita in Freud “Nel ritorno di immagini il compito è in genere più facile che non con i pensieri… ”(Freud, 1892-95, 417).
7 “[…] propongo di utilizzare il termine “intuito” come corrispettivo, nel dominio psicoanalitico, all’utilizzo, da parte del medico, del “vedere”, “toccare”, “odorare” e “sentire” (Bion, 1970, 7).