Bruce La Bruce: Pierrot Lunarie
Germania, 2014 – MoMa
Commento di Rossella Valdrè
Fino al 2 Maggio, il MoMa dedica un’ampia retrospettiva dell’opera del regista canadese Bruce La Bruce, con nove film, compresi i corti, a partire a partire dal primo, No Skin Off My Ass del 1990, che lo segnalò prepotentemente alle scene come uno dei primi film del cosiddetto filone “gay punk romantico”. Da allora La Bruce, oggi maturo e profondo regista cinquantenne, non ha smesso di provocare, stupire e talvolta “shockare” il pubblico, con il suo stile unico nel panorama del cinema gay, quel ‘sottogenere’, non molto noto in Italia, che prende il queer. I film di La Bruce, però, non si limitano a questo: la sua filmografia, così come il suo pensiero, sono complessi e con ben precise radici culturali di cui una irrinunciabile, è la psicoanalisi, di cui il regista ha vasta e profonda conoscenza, avendola anche studiata durante la sua formazione a Toronto. Da vent’anni, in una progressiva crescita che lo ha portato dalle campagne dell’Ontario, dove è nato, a Festival internazionali come Venezia nel 2013 (dove presentò il suo unico, purtroppo, film accessibile in italiano, il bellissimo Gerontophilia) e alla prestigiosa rassegna al MoMa, La Bruce è da un lato rimasto fedele alla sua identità di regista gay (assolutamente inscindibile dalla sua poetica), dall’altro ha saputo esprimerla attraverso vari generi, dall’underground dei primi tempi, al queer, a rivisitazioni di temi classici e operistici, come il film che vedremo oggi, alle varie declinazioni dell’amore gay (Gerontophilia), e altro ancora. Sperimentatore, autore che percorre i confini, contamina i generi, sempre nel terreno di un ben preciso stile identitario, che lui stesso definisce “politico”: l’omosessualità è sempre politica, dice nella nostra conversazione dopo il film, è sempre di rottura, il messaggio dell’artista è quindi sempre politico ed etico insieme, nella misura in cui denuncia il Potere contro ogni minoranza e ogni costrizione borghese. Presente alla proiezione di ognuno dei film, La Bruce, scopro con piacere, è un uomo disponibilissimo al dialogo col pubblico, aperto, di vasta e profonda cultura cinematografica e (cosa che intuivo dai film, ma di cui ora ho piacevole conferma) psicoanalitica. Nato in una fattoria dell’Ontario, gli inizi non sono facili: si scopre precocemente omosessuale, diverso dai ragazzini del suo contesto rurale, e presto si trasferisce a Toronto per gli studi di cinema e psicoanalisi.La passione per il cinema è precocissima, e salvifica per il piccolo La Bruce: nonostante l’ambiente rurale, i genitori sono appassionati di cinema hollywoodiano degli anni ’60, ’70, e il ricordo della sua infanzia (ricordo che non rinnega affatto, anzi) è illuminato dallo scenario di sogno, di fuga, di possibilità espressiva che il cinema viene presto a rappresentare. Diventa anche fotografo, giornalista, scrittore ma il cinema, confessa, resta il primo dei suoi interessi. L’attraversamento di generi magari ostici per il grande pubblico, come il cosiddetto “porno” non devono trarre in inganno: il cinema di La Bruce è cinema colto, che niente ha a che vedere con l’intrattenimento pornografico, ma che usa il corpo (come da riferimento al maestro Pasolini) come metafora e allegoria della condizione umana, dell’abuso di Potere, della castrazione, del feticcio e della mancanza, tutti temi che si ripropongono, in varia forma, nell’opera di questo versatile regista. Il corpo, insomma, è sempre simbolico, è sempre segno con cui incidiamo la nostra identità nel mondo. Ampio, per concludere, lo scenario in cui riconosce i suoi maestri: dal cinema italiano col Neorealismo, Antonioni, l’avanguardia francese con Godard, il cinema giapponese, i classici americani e autori quali Cassavates, Costa-Gravas, il cinema tedesco (molto legato alla Germania) con Fassbinder e molti altri; primo fra tutti, come detto, il debito a Pier Paolo Pasolini. Per ragioni di spazio, mi limito a queste poche righe, frutto condensato della conversazione con l’autore, di cui suggerisco, a chi non lo conoscesse, una rilettura.Come psicoanalisti, Bruce la merita: autore coraggioso e ideologicamente coerente, insofferente ad ogni politically correct e ad ogni ipocrisia, nel contempo uomo estremamente gentile, credo abbia amato la psicoanalisi non solo perché, come scriveva Pasolini “solo la psicoanalisi ha capito l’omosessualità” ma anche in quanto egli ha fatto suo l’assunto psicoanalitico fondamentale: ricercare la verità, oltre l’apparenza, andare alla fonte dei fantasmi inconsci umani. E’, infatti, principalmente il fantasma della castrazione, quello che domina in: Pierrot Lunaire, ultimo film di La Bruce, presentato oggi, 27 Aprile 2015, alla rassegna,. Il breve film (51’) è tratto dall’opera musicale di Arnold Schoenberg del 1912 (che a sua volta lo derivò dal poema francese di Albert Giraud), una composizione per voce femminile recitante che fu eseguita per la prima volta a Berlino ed è forse l’opera più famosa di Schönberg, considerata una sorta di manifesto dell’espressionismo musicale, che propone in musica le stesse tematiche di quello figurativo. Nell’opera tedesca, il protagonista è il poeta Pierrot, eroe malinconico e triste, che cerca di destreggiarsi poeticamente esprimendo se stesso e la sua ambiguità (l’attrice, infatti, è una donna): canta alla luna che lo ispira, vive angosce profonde, immaginandosi assassino, e infine, dopo vari tormenti, torna alla sua patria, Bergamo, invocando nell’ultimo brano «l’antico profumo dei tempi delle fiabe». Pierrot, nella traccia originale, è dunque ambiguo eroe della nostalgia, di qualcosa di perduto. La Bruce trasferisce quest’impianto teatrale (come detto, ottimo conoscitore dell’arte tedesca, quest’ambiguità qui velata deve averlo colpito) in un film assai particolare, che mescola insieme tutti i generi: impianto teatrale, fotografia in bianco e nero che enfatizza il melodramma, poema in tedesco in sottofondo, omaggio al cinema muto evitando il dialogo, ma affidandosi alla forza dell’immagine, della musica e, direi, dell’immaginazione. Lo attualizza agli anni ’70, rendendo il crimine che per l’originale Pierrot era fantasia, come atto concreto, ispirandosi a uno strano fatto di cronaca avvenuto a Toronto: un uomo uscì una notte e misteriosamente evirò un taxi-driver. Nella trasposizione di La Bruce, fedele in questo al musical, il malinconico Pierrot viene abbandonato dalla sua amata fidanzata, Colombina, quando questa scopre con orrore che Pierrot è un uomo castrato, senza pene: il padre di lei, “grasso capitalista”, la costringe ad abbandonarlo. Umiliato e disperato, Pierrot è pronto a tutto pur di riconquistarla, pur di “provare il fatto di essere un uomo” e, ossessionato, decide di castrare un taxi driver (da cui la mescolanza col fatto di cronaca), per poi mostrare il nuovo membro trapiantato a padre e figlia. Tuttavia, la natura posticcia della nuova virilità non può essere nascosta e, definitivamente cacciato col suo misero feticcio, Pierrot va ritorno a casa. E’ evidente, dunque, in questa strana, grottesca, allegorica favola nera, che siamo in pieno terreno psicoanalitico: non del pene è in cerca Pierrot, ma del fallo. Del fallo come significante del Potere, quel potere che la società capitalista (incarnata dal padre della giovane) assolutizza e pretende, e che fa coincidere accettazione, dignità di essere uomo, col possesso del fallo. Pierrot è ricambiato dalla sua amata, finché la terribile mancanza è tenuta nascosta: l’ipocrisia borghese, si accontenta delle apparenze.E’ quando rivela la sua realtà di essere femmineo, mancante di qualcosa, che viene perseguitato e messo alla gogna. L’essere uomo, corrisponde per la società, non alle delicate qualità morali e poetiche di Pierrot, ma a possedere il fallo, il significante.A evadere il fantasma della castrazione, ossia della femminilità intesa come debolezza, perdita, mancanza di. Senza fallo, l’uomo non è più tale agli occhi del mondo. Molto vi sarebbe da dire, dal nostro punto di vista, su questo particolarissimo lavoro; nelle parole di LaBruce, esso “rappresenta una sorta di allegoria per tutti i generi di reietti dalla disapprovazione e dall’ostilità dell’ordine dominante, quando spinto all’estremo”. Il potere non accetta l’ambiguità (Pierrot è un transgender, né maschio né femmina), e a nulla serve il fatto che possegga una natura buona, poetica, e sia capace d’amore. Privato del pene/fallo, qui assunto a grottesco simbolico della virilità, l’uomo non è più nulla; meglio sarebbe stato conteninuare a nascondersi? A coprire la sua “ferita”, la sua mancanza pur di essere accettato e amato? Non manca, ovviamente, il grottesco e l’ironia, in questa pièce tra fantasma e realtà: i sottotitoli che accompagnano le musiche recitano “A cock, a cock, my kingdom for a cock!” (Un pene, un pene, il mio regno per un pene!). Ma prevale, a mio avviso, la forte impronta dell’eredità sia della tradizione del teatro tedesco, sia dell’insegnamento psicoanalitico (con particolare attenzione a Freud, Lacan, Marcuse), in questa allegoria a cavallo tra l’accusa politica e il viaggio in uno dei fantasmi interni, universali, dell’inconscio umano. Solo la poesia, in fondo, dice La Bruce, ha le parole per dirlo…
“io sono nero di amore, né fanciullo né usignolo, tutto intero come un fiore, desidero senza desiderio”
(P.P.Pasolini, La meglio gioventù)