Cultura e Società

Passione e identità. Commento di Antonio Buonanno e Fiamma Vassallo

21/04/17

Passione e Identità

Commento di Antonio Buonanno e Fiamma Vassallo

Alcuni psicoanalisti della Spi aspettavano il dr. Mari; noi, forse per sussiego, pur senza disprezzarlo, no. Costretti ad un ascolto più attento però non possiamo non ammirarne il tormento nella ricerca dell’autenticità.

Un tema della nuova settimana potrebbe essere proprio questo: certo si parla di un’autenticità relativa, quella raggiungibile nel rapporto con se stessi e con gli altri; umana e, come tale, parziale ed incompleta. Sartre dice: “Io ho fatto di me quello che di me hanno fatto gli altri”, segnalando un’inautenticità originaria, quella per cui nessuno di noi ha scelto di essere ciò che è. Non siamo stati consultati alla nascita, ci sono stati assegnati il nostro tempo, il luogo, la lingua, i genitori. Nella migliore delle ipotesi, potremo decidere cosa fare di ciò che gli altri hanno fatto di noi (che è forse uno degli scopi della terapia).

Adele, nel punto più intenso della seduta settimanale, gli dice che forse è possibile riscrivere il libro della propria storia, cambiare i titoli dei capitoli finora assegnati o che sono stati assegnati da altri (come con la precedente analista, vissuta ora come onnipresente e parassitante anche nel suo romanzo biografico); questa riscrittura autobiografica è sempre attiva nel corso della vita e la terapia ha il compito precipuo di riattivarla: rendere il soggetto, almeno in parte, consapevole della propria autorialità.

“Devi fare quello che ti piace”, dice Mari, con un’ingiunzione dalle qualità paradossali, alla propria figlia Francesca, alle prese con la scelta della facoltà e tentata dall’idea di un anno in Australia, “perché lontana” (forse una fuga per proteggersi dall’influenza delle identificazioni genitoriali).

Il tema dell’autenticità si lega quindi a quello del “divenire se stessi” rispetto alle “consegne” generazionali, alle identificazioni alienanti (si veda ad esempio il rapporto di Mari con il proprio padre e con il figlio Michele). “Non voglio fare a Michele quello che mio padre ha fatto a me”, dice Mari alla sua psicoanalista; i “titoli dei capitoli” talvolta sembrano non appartenere tanto al soggetto, quanto alla sua genealogia; sono in parte già scritti. Per Mari la vocazione terapeutica sembra legata alla sua storia, alla “consegna” di figlio devoto che doveva occuparsi della depressione materna. Ma prima ed oltre questo c’è la passione, la vitalità del soggetto, la corsa lungo la staccionata e oltre il cancello, nel sogno sempre inibita, impedita dalla grande figura del padre, che lo riporta al suo “compito”; così Mari pensa di dover frenare la sua vitalità e non riesce a sentirsi completamente vivo nelle relazioni con gli altri, inclusi i pazienti, rispetto ai quali sente spesso di non poter fare abbastanza.

“Provi a pensare a chi è lei, a chi è Rita, dimenticandosi per un attimo del giudizio degli altri… Il teatro è vuoto, c’è solo lei. Qual è il valore che lei dà a se stessa?” chiede Mari sul finire della seduta. Anche per Rita le consegne identitarie hanno impresso una traccia che ne condiziona l’esistenza, il modo di rapportarsi agli altri e a sé. Delle due figlie, lei era la bella, la sorella l’intelligente. Così Rita ripete questa definizione di sé: vuota, inconsistente, solo un’attrice, una che può essere qualcosa solo quando impersona mentre quando è se stessa non è che un “nulla”. Ma, a rischio di sollecitare quei vissuti depressivi da cui fugge, Mari la incalza: cosa c’è in questo nulla? Se è giunta in terapia, forse è anche per affrontare questo lutto “dimenticato”, questa traccia cancellata, l’amnesia di sé (Rita dimentica le “battute” quando è se stessa mentre alla prima dello spettacolo, calata nel personaggio, ha ricordato ogni parola): il lutto più antico del padre, perso quando aveva cinque anni, con la depressione della madre (che per consolarsi prendeva dal letto la sorellina Patrizia, mai lei); quello successivo della madre, rifuggito, mai attraversato (non era riuscita ad andare dalla madre morente in ospedale), infine quello imminente della sorella malata terminale dello stesso male, di cui forse lei stessa è portatrice, attraverso un “gene” (una genealogia?) che sta indagando in se stessa; forse lutto di sé, del suo personaggio, di moglie e madre incompiuta, di persona mai realizzata nella propria autenticità.

Anche Riccardo sembra scappare di fronte alla possibilità di una conoscenza di sé più autentica, fuggendo nella guarigione attraverso la fede. E’ convinto di avere già superato le sue fragilità, ritrovando la vera natura della sua devozione religiosa, distolta dalla superbia intellettuale. Per questo è arrabbiato con Padre Carlo, che vorrebbe affidargli un ruolo che gli fa smarrire la semplicità della Grazia Divina, dalle sue radici, come nell’insegnamento della nonna Margherita. Ma in questo riferimento l’analista intuisce una traccia: la chiamata religiosa è arrivata nel momento della perdita della nonna, con cui Riccardo era cresciuto, libero, mentre la madre, bellissima e amatissima, era distolta dai tanti impegni della carriera di musicista. La perdita della nonna rappresentò forse l’insostenibile distacco dal materno, cui si accompagnava la paura di essere diventato un peso insostenibile per i genitori (e la madre in particolare). La visione oniroide della nonna, vissuta in uno stato dissociativo, espressione forse di uno strappo psichico, ricomponeva nella vocazione questa lacerazione e “liberava” tutti.

Nella psiche si affrontano istanze conflittuali: l’identità è frutto del compromesso tra differenti spinte interne e identificazioni. Se una parte del soggetto assume il “mandato” genitoriale, un’altra vorrebbe invece emanciparsene, sentendosene oppresso e “inibito” (come Mari nelle sabbie mobili dell’identificazione con il padre e con la sua malattia, il Parkinson, che rallenta, blocca). Tuttavia, forse al di là, in un prima o un oltre le identificazioni e i “mandati” familiari, esiste un nucleo personale, “un idioma” del soggetto, un suo “vero sé”, spesso silente; uno dei compiti dello psicoanalista è allora aiutare il soggetto a riconoscere e valorizzare il proprio “idioma personale”, la sua “vocazione”.

La settimana di Luca è stata “strana”: nel suo “romanzo famigliare” ogni punto di riferimento è di nuovo capovolto. Come in un gioco di ruoli in cui i personaggi si scambino continuamente le parti, ora Luca è concentrato a “salvare” i genitori adottivi in opposizione a quelli biologici, colpevoli di averlo “dato via”. La scena raffigura efficacemente il ravvivarsi in adolescenza del vissuto di esclusione di fronte alla coppia genitoriale, che “getta via” il bambino, escludendolo dalla scena sessuale; il genitore “accudente” è così tenuto separato e preservato, nel vissuto, dal genitore “sessuato”. L’espressione “buttarsi via” apre una finestra di consapevolezza rispetto al comportamento sessuale promiscuo di Luca, che “si dà via”. In fondo lui è come loro (forse perché anche lui ora è maturo sessualmente), la sua calligrafia è identica a quella del padre biologico. Ma le lettere sono lasciate in consegna all’analista perché le custodisca e le protegga dalle possibili intromissioni de “l’altra madre”. Appare per la prima volta in Luca la preoccupazione “depressiva” per i genitori. Si tratta però di una depressione “buona”, connessa alla capacità di riconoscere la vita affettiva dell’altro e di avvertirne la responsabilità. Luca è preoccupato per la madre, che vede triste, chiusa nella stanza da giorni; al contempo è stupefatto e in qualche modo felice per la rabbia del padre adottivo alla notizia del messaggio di Erica: questo per Luca significa che il padre tiene ancora a lui, che la sua delusione (rispetto alla sua crescita e lo sboccio della sua sessualità) non era stata poi così grande, che può ancora essere amato.

Sul versante del Dr. Mari, sotto traccia, si avverte la simmetria tra “i padri” di Luca (adottivo e biologico) e “i padri” del figlio Michele (Mari e il nuovo compagno della madre). Nella seduta con la propria analista, Mari comprende che Michele è andato a vivere da lui mosso dalla preoccupazione (proprio come Luca, preoccupato per il padre adottivo, aveva respinto con una lettera formale il “padre naturale”); questo pensiero lo riporta al rapporto con i suoi genitori, all’idea che dovesse occuparsi di loro, occuparsi della loro infelicità.

Bianca aspetta Mari nella sala d’attesa, agitata, l’inquadratura ci mostra un livido sul braccio, che porta in primo piano il tema della violenza e del trauma. Si presenta alla terapia e al contempo minaccia di volerla sospendere, perché la terapia la fa pensare, e lei “non ci deve pensa’ alle cose”; pensare è pericoloso, doloroso. Bianca è una paziente portata più all’azione che al pensiero, e ciò spinge anche l’analista nello stesso terreno (la lascia fumare nella stanza, consente a che una parte della sua agitazione si scarichi nell’atto). Mari non rinuncia però a indagare i nessi inconsci, associando, pensando “al posto” di Bianca, come è spesso necessario con soggetti portatori di nuclei traumatici che hanno intaccato la loro capacità di “sognare”. Il rapporto di Bianca con il compagno può essere quindi “pensato” da Mari in relazione al rapporto originario con il padre, e questa sonda interpretativa consente di indagare la rabbia e la disperazione originarie di Bianca e il ripetersi attualizzato di situazioni violente e traumatiche, in un copione forse scontato. Tuttavia Mari, come nella settimana precedente con Luca, sembra non “tenere” le emozioni e offre precipitosamente a Bianca il recapito di una amica che si occupa di assistenza alle donne vittime di violenze. Con Adele, Mari riuscirà a mettere in relazione questo episodio al suo vissuto di inadeguatezza, di insufficienza.

“Chi sono io?” è spesso la domanda sottesa alla richiesta di un’analisi. Una domanda cui si può tentare una (sempre provvisoria) risposta nella relazione, con la funzione di rispecchiamento che consente al soggetto di (ri)vedersi nello sguardo dell’altro. Così Mari ha “trasferito” nella sua giovane analista tutte le cose buone che ha bisogno di (ri)trovare, tra cui, in primo luogo, la passione, la vitalità. Siamo tutti insufficienti nei nostri sforzi, dice Mari. Questa non è una visione così drammatica; forse è anche molto vera. Ma questa insufficienza può essere la spina di una delusione depressiva (Mari non ha potuto “salvare” la madre, così come non si possono “salvare” i pazienti) oppure l’apertura al desiderio, che nasce sempre dalla mancanza. In particolare, il lavoro di chi presta ascolto alle sofferenze dell’altro ha bisogno sempre di essere rinnovato nella passione e nella vitalità, per non ricadere nelle identificazioni salvifiche o nei ripiegamenti depressivi. Questa è anche la vitale funzione, crediamo, del gioco (come quello di recensire in chiave psicoanalitica un telefilm che raffigura la psicoanalisi), dell’attività creativa, della produzione e della fruizione artistica (e scientifica). Il filo conduttore tra queste esperienze è la vitalità del pensiero, la passione del pensiero, nucleo caldo dell’umano.

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