One more time with feeling
Regia di Andrew Dominik (UK, France)
Genere documentario/ musica
commento di Elisabetta Marchiori
Il 14 luglio 2015 il quindicenne Arthur Cave, uno dei figli del musicista australiano Nick Cave e Susie Bick, la seconda moglie, gemello di Earl, muore dopo essere precipitato da una scogliera a Brighton, forse sotto l’effetto di LSD.
Nel febbraio 2016 iniziano le riprese, in bianco e nero 3D, di quello che doveva essere un documentario promozionale del sedicesimo album di Nick Cave & The Bads Seeds “Skeleton Tree”, girato dal regista Andrew Dominik. Diventa invece molto di più: l’evolversi della creazione artistica si trova a mescolarsi con gli affetti correlati al trauma della morte inaspettata del figlio e ai primi passi verso l’elaborazione del lutto, compiuti attraverso la mediazione della musica, le parole, i gesti quotidiani.
Cave si espone davanti alla telecamera del regista e amico con fiducia, mettendo in gioco l’intensa espressività del volto segnato, il corpo che è un “albero scheletrico”, la voce profonda e ipnotica, in un incontro con il dolore e il senso di colpa. Il risultato è un film in cui le canzoni e il lavoro con la band in studio si alternano a momenti quotidiani della vita di Nick e Susie, a riflessioni intense da parte dell’artista su come un evento traumatico spezzi la continuità della vita e la privi di senso, ne sovverta la temporalità, blocchi il processo creativo. Cave afferma di non credere più nella possibilità di una “narrazione” della vita, per questo le sue canzoni sono diventate più ermetiche, con lo scopo di “irradiare” emozioni piuttosto che “alienare” l’ascoltatore con parole dirette; non sono frutto di conoscenza, ma dell’inconscio, e hanno la natura del sogno. “Qualcuno deve cantare il dolore”: consapevole del potere delle parole e del fatto che devono essere usate con precisione e cautela, i suoi sforzi sono tesi, dice, a tenerle sotto controllo, perché non diventino come pietre.
La morte del figlio, avvenuta solo qualche mese prima, è ancora solo “trauma”, descritto come un evento “circondato da un anello”, delimitato da confini: a parte quello, “tutto dovrebbe essere uguale, invece è diverso”. La vita va avanti ma, come fosse legata con un elastico a questo momento drammatico – quasi un buco nero che risucchia – il suo andare è teso come una fionda, che, in qualunque momento, improvvisamente, ti riporta lì, a quel momento. Guardandosi allo specchio “riconosci la persona che eri, ma dentro sei cambiato”, profondamente, per sempre: le persone non vogliono mai veramente cambiare, cercano di diventare una “versione migliore” di se stessi, ma la perdita catastrofica costringe al cambiamento. Diventi oggetto di pietà, e le persone ti rivolgono “sguardi gentili” che bisogna “ricordare di restituire” senza far trapelare la rabbia, o forse l’invidia. E lo sguardo che Cave restituisce allo spettatore lo è, così come lo è quello che si scambiano tra loro gli artisti che lavorano insieme, con una simpatia e un affetto palpabili, corrispondenze che contribuiscono a impedire che il trauma travolga e sconvolga la mente.
Poi c’è lo sguardo tra Nick e Susie, che sposta i mobili della casa e cerca di lavorare (è una stilista) per “tenere la mente occupata”. Lei sembra attonita, come nella poesia di Emily Dickinson “dopo un grande dolore / viene un sentimento formale (…) questa è l’ora di piombo / ricordata da chi sopravvive”. Il tempo del trauma, come dice l’artista, è un tempo collassato, dove il presente, il passato e il futuro sono tutti un “adesso”. E si percepisce intensamente questa sensazione quando Susie mostra, sforzandosi a non piangere, un disegno “profetico” del figlio, fatto alcuni anni prima, già incorniciato di nero, che è lo stesso il paesaggio con il mulino a vento che fa da sfondo all’ultimo selfie postato da Arthur.
Il regista riesce a entrare con estrema delicatezza ed empatia nelle pieghe e nelle piaghe dell’anima senza essere mai invadente o vouyeristico, e far sintonizzare lo spettatore, grazie anche alla scelta particolare del bianco e nero che, in tridimensionale, fa entrare nelle immagini, avvolge senza essere oppressivo.
Stonano forse un paio di scene finali, in cui subentra il colore, come se ancora non si fosse pronti, ci volesse ancora del tempo.
Cave dice che, nonostante tutto, con Susie e Earl – che ricambia gli sguardi gentili e sorride alla macchina da presa – hanno “deciso” di essere felici: felicità come atto di vendetta e di sfida, con il proposito di prestare più cura e attenzione per le persone che sono rimaste.
L’atto di volontà può essere il primo passo verso l’elaborazione del lutto, accompagnato dalla consapevolezza che la persona cara “è dentro di te, ma non è viva”, eppure non bisogna smettere di chiamarla, come dicono i versi di una delle canzoni, per mantenere in vita la creatività e la speranza: “Niente ci è regalato, e va bene così”.
Vorrei poter condividere molto altro di questo film che trasmette così tante emozioni e sensazioni, ma forse ha ragione Cave, la “narrazione” del trauma è inevitabilmente riduttiva. L’uscita dell’album è imminente, così come del film (ma non rimarrà a lungo in sala, non perdetelo); entrambi sono dedicati a Arthur, ma sono per noi, i sopravvissuti: “C’è più paradiso all’inferno di quanto ci hanno detto”.