a cura di Stefania Nicasi.
Pensando alla Giornata della Memoria, il Centro Psicoanalitico di Firenze, in collaborazione con l’Istituto Stensen, ha organizzato un’edizione speciale della rassegna di cinema e psicoanalisi Buio in sala. Nel pomeriggio di sabato 23 gennaio è stato proiettato al cinema Auditorium Stensen il film Ogni cosa è illuminata . Alla proiezione sono seguiti i commenti di Fausto Petrella e di Paolo Rossi. Il conclusivo dibattito con la sala è stato condotto da Stefano Calamandrei. L’ingresso era libero, la sala del cinema si è riempita nonostante l’inattesa giornata di sole.
Pochi giorni dopo -si è trattato di una felice coincidenza- il Centro Milanese di Psicoanalisi ha organizzato per la Giornata della Memoria la proiezione dello stesso film accompagnata da interventi di Giuseppe Pellizzari, Valeria Egidi, Simonetta Diena, Dani Schauman. Il film Ogni cosa è illuminata (2005) del regista Liev Schreiber è tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer (2002). La Rivista di Psicoanalisi ha di recente ospitato un bel commento di Maria Vittoria Costantini. Il protagonista, Jonathan Safran Foer (Elijah Wood), è un giovane ebreo di origine ucraina nato e vissuto negli Stati Uniti. Collezionista di oggetti collegati alla sua famiglia, Jonathan decide di fare un viaggio in Ucraina per ritrovare lo sperduto villaggio di Trachimbrod dove visse suo nonno. Porta con sé una fotografia e un gioiello d’ ambra. Nel viaggio, si affida a una guida locale, un uomo anziano di nome Alexander che porta occhiali da cieco (Boris Leskin), e al di lui nipote Alex (Eugene Hütz) che parla un buffo inglese. La “rigida ricerca” si svolge a bordo di una Trabant attraverso meravigliosi paesaggi ucraini. Al seguito della improbabile comitiva, la cagnetta Sammy Davis Junior Junior.
Tutti e tre i personaggi sono alla ricerca di qualcosa: il protagonista cerca le tracce della sua famiglia, il nonno Alexander un passato dimenticato, il nipote Alex le proprie origini ucraine. Presto però diventa difficile stabilire “chi guida chi”. Quando arrivano a destinazione, Jonathan scopre che Trachimbrod non c’è più dopo che i nazisti ne hanno sterminato gli abitanti. Tutto ciò che rimane di quel villaggio è una donna anziana che ha collezionato nella propria casa centinaia di oggetti appartenuti agli scomparsi. Jonathan scopre che suo nonno aveva avuto una prima moglie in Ucraina: è Augustine, la donna della fotografia, sorella dell’anziana superstite. Augustine è stata uccisa. Il nonno Alexander finalmente ricorda di essere miracolosamente sopravvissuto alla fucilazione. Il suo vero nome è Baruch: è ebreo, era anche lui di Trachimbrod. Nel viaggio di ritorno Alexander- Baruch si uccide.
Compiuta la ricerca, Jonathan può tornare negli Stati Uniti. Porta con sé il dono dell’anziana superstite di Trachimbrod: una scatola di ricordi di famiglia con la scritta “Nel caso”. Al pari del sogno, anche la memoria si fonda su un lavoro psichico. Un lavoro di continua ritrascrittura e progressiva trasformazione dei contenuti psichici da “cose” o “fatti” in elementi che si definiscono “ricordi” nella misura in cui possono essere dimenticati e ritrovati. Dimenticare è l’altra faccia di ricordare. Una memoria zeppa di cose che non si possono dimenticare non è propriamente una funzione. E’ un serbatoio, una collezione sterminata e fissa che può trovarsi in un museo come in un cimitero: nel film questo è ben rappresentato da una parete sulla quale stanno appese centinaia di bustine di plastica contenenti un piccolo oggetto-ricordo. E’necessario che gli oggetti-ricordo siano affidati alla corrente del tempo e delle emozioni, che affrontino l’usura, l’alterazione, il rischio della perdita. E’necessario che entrino nel flusso della coscienza, nel fiume della vita dove possono scorrere via per finire chissà dove, chissà a chi. E’ molto evocativa nel film a questo proposito -come acutamente ha osservato Vanna Berlincioni- l’immagine del fiume sul quale galleggiano centinaia di bustine o di foglietti, come post-it attaccati all’acqua. La collezione si è fluidificata nel tempo della vita che ha ripreso a scorrere. Gli oggetti-ricordo sono diventati memorie.
La riflessione sulla Giornata della Memoria, a partire dalla discussione del film, a Firenze si è mossa attorno a questi temi, sollecitata dal comune suggerimento di Fausto Petrella e Paolo Rossi: “buone ragioni per ricordare e buone ragioni per dimenticare”. Si è approfondita e complicata grazie a numerosi interventi dal pubblico. Ne abbiamo ricavato l’invito a interrogarci sui rapporti fra evento traumatico e testimonianza, storia ricostruita dagli storici, storia rievocata nella produzione artistica: “E’ una storia vera?” può chiedere l’ascoltatore, il lettore, lo spettatore. Mentre il testimone e lo storico si attengono il più possibile alla verità fattuale, l’artista muove da quella per tendere alla verità interna, a cosa è successo dentro alle persone, cosa hanno provato, visto, pensato. Cosa è successo a quell’essere umano, proprio a lui. Cosa ha pensato prima di morire? Una degli aspetti terribili nello sterminio è l’annientamento della soggettività. Le persone rese uguali le une alle altre, senza più nome, senza più storia, senza più colpe. I forni crematori, le fosse comuni, i sacchi di denti, le montagne di capelli: “Quanti spiriti vasti e potenti, quanti cuori puri, quanti begli occhi di bambini, quanti dolci visi di vecchie, quante ragazze fiere di una bellezza che la natura aveva impiegato secoli a creare, sono precipitati, immenso fiume silenzioso, nell’abisso del nulla” (Vasilij Grossman, L’inferno di Treblinka).
Si capisce l’urgenza di salvare un lembo di stoffa, una medaglietta, la stringa di una scarpa, se è soltanto quello che resta di un essere umano inghiottito dall’abisso del nulla. Si capisce la collezione. Si capisce il viaggio di Jonathan Safran Foer come si capiscono i tanti viaggi dei discendenti nei paesi degli scomparsi, viaggi alla ricerca di una prova di esistenza che diventi monumento alla singolarità. Miserevole parte per un perduto tutto. Si capisce la straordinaria importanza di ricomporre liste, nominare nomi, raccogliere testimonianze, visitare luoghi. Nella Giornata della Memoria si rende onore a tutto questo. Ma nello stesso tempo si tenta forse un lentissimo e straziante processo di separazione dai lembi di stoffa, dalle medagliette, dalle stringhe delle scarpe, dai grumi di sofferenza inespressa che passano da una generazione all’altra. Si cerca, attraverso il racconto, di trasformare le cose in parole che altri possano ascoltare e ripetere in modo che non solo alcuni, ma tutti, possano ricordare e in modo che non tutti, ma solo alcuni, possano finalmente dimenticare.