L’atmosfera della Mostra, la visione di più film nello stesso giorno, mi induce a modificare il modo ‘standard’ nel proporre i commenti. Quindi per non influenzare il desiderio di vedere o non vedere il film tralascio le stelline, tanto leggete tra le righe, se vi risuona.
Sezione: in Concorso
Dati sul film: regia di Alexander Avranas, Grecia, 2013, 99′
Genere: drammatico
Siamo in Grecia, in regime d’austerity, ma potremmo essere ovunque, perché il problema dell’infanzia violata non ha confini e dilaga a macchia d’olio, poco influisce la crisi economica.
Alexander Avranas propone un film estremamente perturbante, di una violenza sorda, esplicitata solo nell’ultima parte, che si insinua nella mente, nell’anima e nel corpo dello spettatore, che non ha via di scampo. A poco a poco entra nei segreti di una famiglia in cui l’incesto, la prostituzione, gli abusi fisici e psichici fanno parte della quotidianità e sono la ‘normalità’. Il suicidio iniziale della eterea undicenne Angeliki, che si lancia con un lieve (e al momento incomprensibile) sorriso dalla finestra di casa il giorno del suo compleanno, mentre la famiglia festeggia, è un incipit che fa prospettare il peggio. Ma al peggio, come nel proverbio popolare, non c’è mai fine. I protagonisti sono un padre-nonno, interpretato da uno straordinario Themis Panou, che è il carnefice ‘ufficiale’, il male travestito da buon capo di famiglia, una madre-nonna dal viso cinereo e lo sguardo spento, due figlie. La prima è una donna giovane, bella, che si costringe a rimanere con un’espressione statuaria, incinta e con tre figli (di cui una è Angeliki), i sopravvissuti sono un bimbo e una bimba tra gli otto e i dieci anni, tutti sono senza padre. La seconda è una quattordicenne che si ferisce, l’unica che tenta di ribellarsi a quanto accade in famiglia, con conseguenze peraltro terribili. I rapporti di parentela rimangono poco chiari. Le interpretazioni attoriali sono eccezionali, comprese quelle dei bambini, trascinati in un gioco perverso e sadico dal silenzio degli adulti, vittime e nello stesso tempo complici dell’orrore. Tutti abitano nella stessa casa, piena di porte che possono essere scardinate, ‘perché non ci sono segreti in questa famiglia’, o si chiudono. Lasciando spazio all’immaginazione. Difficile mostrare per immagini ciò che per la mente non è ancora raffigurabile.
Un film claustrofobico, angosciante, diretto con tempi e movimenti lenti, ma necessari perché lo spettatore riesca a entrare in risonanza impedendogli di rigetterlo,
Perchè è un film, anche questo, purtroppo, tratto da storie vere, raccolte dallo stesso regista.
I temi trattati sono evidentemente di interesse psicoanalitico, pensiamo che il prossimo Festival del Cinema di Londra il prossimo novembre sarà su ‘il segreto’ e a Verona fra qualche giorno, dal 7 settembre, si terrà il convegno ‘Le radici della Violenza’, che avrà tra gli altri, come relatori, Stefano Bolognini e Maria Vittoria Costantini.
A me pare che questo film sia un’efficace rappresentazione della pulsione di ‘impossessamento’ (Bemächchtigungstrieb o ‘emprise’) già presente nel primo Freud e poi sviluppata da diversi autori (tra cui Bergeret, Denis, Dorey, Khan), dalla quale si possono sviluppare dinamiche interne e relazionali pesantemente perverse. Si tratta di una pulsione parziale connessa, che ha lo scopo di impadronirsi dell’oggetto, per controllarlo e usarlo negandone l’alterità e l’identità, come una parte di sè. Nel momento in cui l’oggetto cerca di uscire da tale controllo, annichilente e annientate, o rientra nella spirale soccombendo o viene eliminato. Il film non pare individuare una via d’uscita, una porta socchiusa verso un altrove, una possibilità di rinascita. Solo una finestra per un salto nel vuoto, perchè quella porta chiusa a chiave, alla fine del film, non ha nulla di rassicurante. Sta allo spettatore, in particolare psicoanalista, riuscire a trovare un passaggio per non restare intrappolati per sempre o morire, come Angeliki.
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