Di Nima Javidi, Iran – Fuori concorso
Commento di Rossella Valdrè
Graditissima sorpresa, per me, trovare al Festival, ad aprire le giornate degli Autori, lo splendido film del giovane iraniano Nima Javidi, certo erede del più noto Asghar Farhadi autore de Una seprazione e Il passato (sono entrambi recensiti su spiweb): uno di quei casi in cui si dire che l’allievo (spirituale, quanto meno) superi il maestro.
Sensibilissimo, raffinato, ricco di registri sovrapposti, tecnicamente perfetto nei ritmi e nei tempi, profondo e complesso ma capace di toccare tutti i cuori, ottimamente interpretato da Payman Maadi, già premio Oscar appunto per Una separazione. La somiglianza di stile e tematiche tra i due registi è tale che, se non avessi controllato bene il nome, li avrei certamente sovrapposti. Un film perfetto, come capita raramente di vedere. Incalzante, perturbante.
Teheran. Una giovane coppia, l’ingegnere Amir e sua moglie Sara, stanno ultimando i bagagli per trasferirsi per qualche anno in Autralia, a Melbourne, per perfezionare i loro studi. Il volo sarà tra poche ore, l’arco di tempo che racchiude la vicenda. I primi venti minuti scorrono nei preparativi, un misto di frenesia, leggero eccitamento, ansia per il nuovo che li attende, slancio vitale verso una nuova posssibilità, un cambiamento che si prospetta potenzialmente migliorerà la loro vita. Valigie, impacchettamenti, conti da saldare…ma si potrà mettere davvero tutto via? A fianco, nella camera da letto, dorme una neonata. Scopriamo che l’ha lasciata loro in custodia, provvisoriamente, la baby-sitter del vicino. Ma, quasi per caso mentre impacchetta, Amir si accorge che la bimba non respira. Un bambolotto morto, improvvisamente. Tutto si blocca, tutto cambia. Una sorta di assurdo, incomprensibile perturbante nella loro casa: una noeanata pressocchè sconosciuta, è morta nel loro letto. Da lì, dal loro sguardo che da gioioso diventa una maschera attonita, seguirà una piccola cascata di eventi e personaggi che bussano alla porta, telefonano, entrano in contatto per brevi attimi con la coppia, inserendo la loro fessura di vita nella storia. Il padre della bimba, separato dalla moglie e in lite per l’affidamento; la baby-sitter che torna in ritardo e si riassenta di nuovo; la madre di Amir; il padrone di casa e il rigatterie; ma di questa galleria di personaggi nessuno viene a sapere che al di là del soggiorno, avvolta nella sua copertina, una neonata senza nome, è morta. In una perfetta catena di equivoci, casualità, silenzi, vediamo Amir che, preso dal panico, appena la scopre non dice nulla al padre, come schiacciato da un inspiegabile senso di colpa. Si è forse distratto? Non avrà controllato? Sara, infatti, sulle prime non gli crede: “che cosa hai fatto?”.
Gli innocenti diventano improvvisamente colpevoli. Potenziali colpevoli.
Da questa non ammissione – e dunque non elaborazione – dell’assurdo evento, la Verità non sarà più detta. Per qualche minuto aleggia una sorta di caccia al colpevole, come sottotesto del film: potrebbe essere già arrivata morta e lasciata a loro apposta dalla baby-sitter, potrebbe essere il padre per rabbia contro la moglie, Sara accusa Amir, Amir accusa Sara.
La colpa, non solo inconscia direi sotterranea, impalpabile, respirabile persino dallo spettatore, impregna l’aria delle casa, le loro menti. Ma qual è il crimine? La menzogna iniziale condizione tutte le menzogne successive, in una valanga ormai obbligata, non arrestabile: la loro stessa vita diventa ‘finta’.
Radicalizzando la cifra stilistica di Farhadi, il film è girato esclusivamente in interni, l’appartemento set del dramma (ma attenzione, l’impianto teatrale non ne fa una pièce di teatro: questo è puro cinema), nulla concede alla distrazione o a suoni che non siano le voci, concentrandosi esclusivamente sui movimenti interni della coppia.
Ha detto il regista in un’intervista che, benchè “Non era importante ai fini della narrazione, una delle domande che continuavo a pormi dopo la proiezione di prova del film, è se questa coppia sarebbe riuscita a vivere insieme dopo tutto quello che era successo. (…) Continuavo ossessivamente a riflettere sul destino dei personaggi, questo pensiero non mi ha più abbandonato. Ho riflettuto sul futuro e ho immaginato Amir e Sara in varie situazioni, ma non riuscivo a credere che vivessero ancora sotto lo stesso tetto. Mi dispiaceva molto, ma tutto sembrava finito, perché conoscevano meglio alcuni loro aspetti caratteriali, che avrebbero messo in crisi il rapporto. Credo che la caratteristica più affascinante e, allo stesso tempo, terribile degli esseri umani sia l‘imprevedibilità’. Qualcosa che è legato a una componente della natura umana che appare in situazioni complesse e che risulta anche sorprendente. (…) Questa è la stessa esperienza che ha vissuto la coppia, apparentemente innocente, di Melbourne, un’esperienza amara, anche se profonda. Ma credo che la situazione non sia del tutto negativa. In qualsiasi posto del mondo si trovino ora, sotto lo stesso tetto o meno, queste due persone conoscono meglio la loro vera natura”, ha concluso Javidi.
Ho riportato quasi per intero le sue parole, poiché mi paiono importanti: il regista si è affezzionato ai suoi personaggi, non li riesce a lasciare, s’interroga sul loro destino.
Non sappiamo se e come sopravviveranno. La scelta apparente, salendo in taxi alla fine, è che tutto torni come prima: Melbourne. Ma non sarà possibile.
Dramma senza innocenti e senza colpevoli. Ciascuno è potenzialmente criminale con la disattenzione, ma nessuno ha commesso niente di male. Finale geniale: Amir intravvede un’altra anziana vicina e prima del volo, ripetendo esattamente la stessa formula, le affida la bimba. La sua morte silenziosa (che in gergo medico è la nota Sids, sindrome non rarissima, per cui i neonati possono morire nel sonno, unica spiegazione razionale a cui Amir pensa solo alla fine, avendo finora prevalso i vissuti sui fatti) non è vista da nessuno.
La colpa inelaborata passa così come un pacco da una mano all’altro, evocando una sorta di passaggio trans-generazionale, trans-personale tutto giocato nello spazio di un pianerottolo. Raramente, ne ho visto una rappresentazione più efficace.
Porte, squlli di celluari, campanelli, sono i significanti prevalenti in Melbourne: chi bussa alla porta, allo spazio della coppia, introduce quello che Freud chiamò il perturbante, Das unheimlich. Ciò che è estraneo, che ci turba. Ma dal punto di vista semantico, nella lingua tedesca esso proviene da heimlich: il familaire, il noto, il rassicurante. La radice è la stessa. Dei molti registri possibili, di cui ne ho percorso solo alcuni, trovo qui la seduzione maggiore.
Non si trattasse di un Fuori Concorso, io avrei già deciso (senza vedere il resto!) chi premiare in questa Venezia. Ho vissuto un piccolo conflitto, scrivendo queste righe: non volevo privare i lettori del gusto di scoprire il film ma, forse come il regista, mi dispiaceva abbandonare i personaggi, non tentare di esplorarne un po’ le possibili trame…
Chiudiamo tornando alle parole del regista: si può sopravvivere all’inspiegabile? Come? Quella di Amir e Sara è una possibile strategia, il ‘rendere non avvenuto’? Non sembra, dal loro ultimo primo piano.
L’insondabile. L’incomprensibile. L’inelaborabile. Il dubbio.
“Il dubbio e l’orrore sconvolgono/i suoi pensieri turbati, e dal profondo in lui/si agita l’inferno, ché egli si porta l’inferno/dentro di sé e attorno, e non si può staccare/dall’inferno o da sé in un solo passo, fuggire mutando luogo”.
(John Milton)