Autore: Sergio Anastasia
Titolo: Malcolm & Marie, Regia di Sam Levinson, USA, 2021, Netflix.
Genere: Commedia
“Amore non è guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”
Antoine de Saint-Exupéry
Levinson costruisce la trama, giocando alle scatole cinesi di una tragedia in una tragedia: un moderno Amore e Psiche, realizzato interamente durante il primo Lockdown.
In un momento epocale, quando fuori è in corso una pandemia e si è tutti costretti al distanziamento fisico, in una villa della California, viene segretamente girata l’interazione tra due protagonisti, alle prese – paradossalmente – con un’intensa operazione di reale avvicinamento reciproco. Due identità fuse in una relazione che li ha, allo stesso tempo, resi distanti, a causa del bisogno di affermazione personale che ha colonizzato, sin lì, la loro relazione.
Lou Andreas Salomè scriveva nel suo ‘La rivolta dell’Eros’, recentemente pubblicato in italiano (2012), che: “Il sogno più pertinente e inalienabile di ogni amore in quanto tale è un eterno rimanere estranei nell’eterna vicinanza”. “Malcolm & Marie” racconta la tensione tra ciò che richiama la passione e la libido erotica, ovverosia il mistero, da una parte e ciò che nutre, invece, dall’altra parte, la relazione reciproca tra due individui, ovverosia: la stabilità e la presenza; l’eterno ritorno al dialogo tra Amore e Psiche, tra mente e corpo.
Il pretesto, attorno al quale ruota la trama di questo film, interamente girato in un unico spazio, tuttavia mai angusto, è il timore dell’amore non ricambiato.
Malcolm (John David Washington), e Marie (Zendaya), hanno appena assistito alla prima del nuovo film di lui, regista in ascesa del panorama hollywoodiano. Il ballo appassionato e lussurioso di Malcolm, a fine serata, si scontra con la fisicità dura di Marie, intrisa di un’invidia scatenata, come immediatamente si scoprirà, dalla mancanza di gratitudine che lui le ha mostrato al termine della cerimonia. Come emergerà in seguito, Marie rimprovera a Malcolm questa mancanza, anche e soprattutto perché il film stesso da lui girato è inspirato alla sua storia di tossicodipendente nera che è riuscita a guarire. Tanto quanto Marie è stata nel suo processo di guarigione riconoscente all’amore che lui le ha mostrato quando lei era in difficoltà, tanto lui non riesce a fare altrettanto. Malcolm le risponderà accusandola di non avergli reso possibile una reale vicinanza, in quanto, ci dice il protagonista – a mio parere verosimilmente – lei sentendosi indegna, non gli ha permesso sino ad allora di poterla amare, in modo incondizionato.
Finché si rimproverano l’uno l’altra i propri reciproci sbagli, Malcolm e Marie restano vittime del proprio bisogno di attenzioni, che impedisce il fluire libero delle emozioni.
La critica non ha ben accolto questo film, forse per alcune scelte che sono state giudicate come discutibili: tra queste il fatto che la pellicola venisse girata interamente in bianco e nero, come se fosse questo un inutile esercizio stilistico, e che i personaggi spiccassero più per la loro bellezza, che per la loro bravura. A questo si unisce la prevalenza di dialoghi, quasi che la parola, secondo alcuni, avesse la pretesa di oscurare possibili lacune della sceneggiatura, legate alla particolarità delle condizioni in cui la pellicola è stata girata.
Eppure, quasi anticipando questi possibili giudizi, Levinson gioca con i personaggi, affidando loro le possibili risposte a queste “accuse”: lei, impersonando nel film il ruolo di attrice, al culmine del pathos della vicenda, mostra una bravura tale da far capire al compagno che il fatto di non averla scelta come protagonista della pellicola sia stato un enorme sbaglio; dall’altra, assistiamo a Malcolm che, nella sua appassionata analisi del cinema contemporaneo, afferma come: “certi idioti privano il mondo del suo mistero, perché devono etichettare tutto”. Critica che è stata, anche questa, in realtà mossa al film di Levinson. Sempre continuando nel gioco delle scatole cinesi utilizzato dal regista, Marie porrà a Malcolm proprio la medesima accusa, ovverosia quella di non saper accogliere il suo mistero di donna: egli, come uomo e come compagno, si è mostrato incapace – dice lei – di vivere fino in fondo la tragica impossibilità di raggiungere davvero l’altro. Non possiamo davvero conoscere colui che amiamo, così come non riusciamo a raggiungere davvero fino in fondo noi stessi. Il contatto di cui c’è bisogno, per permettere di sfiorarsi e poi di nuovo lasciarsi soli è un contatto delicato, intimo e profondo. Non sessualizzato ed eccitato. La qualità del primo contatto consente separazione; il secondo, quello passionale, invece crea legame.
Il momento in cui è ambientata la vicenda, sembra essere quello di un passaggio da un’epoca della relazione immatura e più basata su reciproche idealizzazioni, a una più adulta, fatta di elementi di profonda gratitudine.
Levinson affida a Marie il compito di trascinare la coppia dal reciproco rimproverasi le proprie mancanze, legate alle disillusioni, verso l’apertura di un orizzonte comune, fatto di accettazione e di com-prensione.
La rinuncia a una quota di gratificazione sessuale, di natura primariamente sado-masochistica, può essere ben compensata dal reciproco riconoscimento, attraverso il quale – come sappiamo grazie alle intuizioni di Melanie Klein – le esperienze spiacevoli, inevitabili all’interno della relazione, possono essere bonificate.
In questo senso, la scelta del bianco e nero appare la via stilistica, attraverso la quale il regista sembra volerci mostrare come l’assenza di tinte forti non equivalga alla mancanza di vita, ma piuttosto alla possibilità di essere immersi in una dimensione priva di una causalità e una logica temporale pre-determinate; una dimensione essenziale, sobria ed effettiva, dalla quale possano nascere nuove prospettive, partendo da un passato comune.
Il fatto di sentirsi reciprocamente accolti, ascoltati e amati, senza giudizio e aspettativa, può davvero condurre verso luoghi felicemente inesplorati.
Nella sua delicatezza, in fondo, trovo che questo film compia il suo sforzo di evocare altri modi possibili di essere in relazione. Qualcosa di profondamente psicoanalitico. Qualcosa di cui, soprattutto in questa epoca, caratterizzata da restrizioni e da un’etica consapevole, c’è davvero molto bisogno.
Bibliografia:
Bion W.R, (1962b). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.
Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere, OSF, 9. Boringhieri, Torino, 1976
Klein M., (1957), Invidia e Gratitudine, Giunti, Firenze
Salomè, L.A., (2012), La Rivolta dell’Eros. Sull’amore e il tipo donna, Fiabesca, Roma