Autore: Elisabetta Marchiori
Titolo: Locke
Sezione: fuori Concorso
Dati sul film: regia di Stevens Knight, Gran Bretagna, 2013, 85′
Genere: drammatico
Interpretato dall’attore inglese Tom Hardy è un film che racconta, in tempo reale, di un ‘viaggio’ che porta il protagonista, Ivan Locke, capo cantiere efficentissimo, con una carriera lavorativa senza sbavature, fino ad allora affidabile padre e marito, a compiere una serie di azioni inaspettate.
Succede qualcosa (che non voglio rivelare) che lo induce a ‘prendere la sua decisione’, dalla quale non ‘tornerà indietro’. Alla vigilia di un evento di enorme importanza per lui – dirigere i lavori per gettare le fondamenta del suo building (edificio) di cinquantacinque piani con una eneorme colata di calcestruzzo – si mette alla guida della sua auto per fare ‘quello che ritiene giusto’.
Questa scelta mette a repentaglio tutte le sue certezze, ma per lui ê necessaria. È figlio ‘bastardo’ di un padre che lo ha abbandonato sin dalla nascita, per ripresentarsi quando ormai era troppo tardi, con cui si identifica e da cui vuole differenziarsi, a costo di autodistruggersi.
Il film, claustrofobico, è quasi interamente girato all’interno di un’auto, che in momenti scanditi si vede dall’esterno nella sua corsa notturna, con i fari accecanti e le indicazioni stradali. È il volto di Ivan sempre in primo piano, che telefona ad una serie di persone, ripetutamente, di cui si sente la solo la voce, ma di cui si possono immaginare espressioni e azioni, per ‘mettere le cose a posto’, nella speranza che ‘domani tutto ricomincerà come prima’. Tra una conversazione e l’altra con persone reali, in un crescendo di tensione, dialoga con rabbia il padre morto, fantasticando di dissotterrarlo per mostragli quanto è diverso da lui.
Girato con ritmo incalzante e tempi drammaturgici perfetti, un film originale, che potrebbe essere visto come la metafora dell’inizio di un percorso psicoanalitico.
Protagonista il Super-Io ‘luciferino’, come lo definirebbe Lopez, del protagonista, minato dalla una idealizzazione e dalle fantasie di onnipotenza non superate di un bambino senza padre e senza radici, che ha lottato per fare attecchire da solo, in un estenuante processo riparativo e di ‘pulizia’. E qui è inevitabile l’associazione com l’immagine metaforica delle fondamenta e della costuzione del ‘suo’ building, che conquisterà per lui un pezzo di cielo.
Si può immaginare che Ivan sia stato un bambino responsabilizzato precocemente, che ha sperimentato cosa significa l’abbandono, sulla sua pelle e su quella della propria madre, e non voglia ripeterlo. Entra in gioco anche il tema della colpa transgenerazionale, con la biblica minaccia, che sembra realizzarsi: ‘Perchè io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Esodo 20:5).
Tuttavia Ivan ha iniziato il suo viaggio, che non si conclude con la fine del film, che è aperta: deve trovare la sua strada, e non può essere solo in direzione opposta a quella del fantasma paterno.
Mi ha fatto pensare alla ‘crisi evolutiva’, così come la intente Racamier, che può diventare opportunità di autentico cambiamento.