Light Years (Anni luce)
Esther May Campbell, Regno Unito, 90′
In Concorso
Commento di Elisabetta Marchiori
Speriamo che sia un film, come il turco Motherland, che illumini le sale cinematografiche italiane, e non sia solo una stella cadente in questa Mostra del Cinema. Perché è un film prezioso, lucente e leggero, come evoca già il titolo. Ci mostra il dolore, ci fa sentire il dolore e il modo in cui tre figli di una giovane madre che non li riconosce più possono viverlo e affrontarlo. Lei è in una casa di cura, malata di una forma di demenza che la chiude nel suo mondo. Il padre scompare (“vanished”), se ne va al suo lavoro in una serra con piante e farfalle, scordando la promessa a Rosie, di otto anni, di accompagnarla a trovare la madre, il dolore l’ha “fatto fuori”, come dice Ramona, adolescente, che lo cerca. Lei sogna di trovare qualcuno che la ami e la porti via, mentre il fratello Ewan, un ragazzino di tredici anni, continua a pensare che anche lui svilupperà la malattia della madre.
Tutti sembrano girovagare senza meta in luoghi abbandonati alla periferia di una città, immersi in paesaggi meravigliosi, ma una forza potente, un legame profondo, li guida e li tiene uniti, anche se lontani fra loro anni luce. Sembrano persi, disorientati, spaesati, in una madre terra in cui non trovano punti di riferimento, spinti dal desiderio di ritrovare la madre e riunire la loro famiglia.
La giovane regista riesce a costruire intorno ad ogni personaggio un universo a se stante, ma ognuno è anche una stella parte di un’unica costellazione familiare.
“Voglio essere dentro, sentire cosa si dicono”. Questo è il desiderio di Rose, che osserva con i fratelli i genitori al di là della finestra chiusa della casa di cura. “Lui dice che siamo perfetti, e lei risponde che lo sa”, immagina e le risponde Ewan. Il desiderio di essere con i propri genitori e essere per loro perfetti, quando non sono in grado di desiderare, può essere straziante. Ma lo spettatore sente che questa madre e questo padre li hanno desiderati, amati, tenuti fino a quando hanno potuto, ed è stato sufficiente, good enough, per creare un legame che li sostiene e li tiene alleati, malgrado tutto.
La regista, presente in sala con gli attori, ha detto di aver lavorato con loro, scena per scena, affinché frammenti che erano nella sua mente si unissero, grazie al lavoro dell’inconscio, per creare una storia.
Una storia fatta di immagini, parole, suoni, musiche di grande impatto visivo e uditivo, giocata sul registro dell’onirico, in uno stile visionario alla Malick, che trasporta lo spettatore in mondi interni e spazi psichici. I tempi sono quelli del qui e ora, ma anche dell’altrove, della memoria e del sogno. Una foto, una frase, un gesto, un topolino che muore e rinasce, un bacio adolescenziale furtivo, ogni gesto trova un senso nella narrazione filmica, che sembra legata da associazioni libere.
Un film sulle risorse interne dell’infanzia e dell’adolescenza, sulle luci e le ombre, sul confronto con la malattia e la morte, un duro faccia a faccia, un corpo a corpo, con i limiti di ciascuno di noi.
10 settembre 2015