Cultura e Società

Le soluzioni della vergogna : This must be the place , Shame – Riefolo

7/06/12

Le soluzioni della vergogna

 This must be the place (P. Sorrentino, 2011)

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Shame (S. McQueen, 2011)

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Giuseppe Riefolo

 

“solo gradualmente mi consegnò questi aspetti di

se stesso per cui provava una profonda vergogna”

(Ogden,2012,115)

 

i film.

Cheyenne è una rock star, celebre negli anni ottanta come leader del gruppo musicale Cheyenne & The Fellows, che nonostante si sia ormai ritirato dalle scene si veste e si trucca come quando saliva sul palco. Non vuole più saperne della sua musica e del suo passato. Da anni si è chiuso nella sua grande casa di Dublino, dove vive con la moglie Jane, che fa il pompiere, e passa le giornate a seguire i suoi investimenti in borsa. Un giorno viene informato che suo padre, con cui non ha contatti da tanti anni, sta morendo a New York. Quando ci arriva scopre che il padre è già deceduto. Trova il suo diario e finalmente può dialogare con lui. Viene a conoscenza che aveva dedicato gran parte della sua vita alla ricerca di Aloise Lange, l’ufficiale nazista che lo aveva umiliato in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale. Decide di proseguire le ricerche del padre intraprendendo così un viaggio solitario negli Stati Uniti aiutato solo da Mordecai Midler, un facoltoso ebreo esperto cacciatore di nazisti. Incontrerà David Byrne e la sua musica, poi Rachel con suo figlio e l’anziana moglie e la nipote di Lange, fino ad incontrare il vecchio Lange che suo padre avrebbe voluto morto.

Brandon è un uomo di circa trent’anni che vive a New York: ha umn buon lavoro ed una bella casa, ma è solo; cerca le donne per procurarsi un potente eccitamento transitorio. Quando la ribelle sorella minore si trasferisce a vivere nel suo appartamento, gli equilibri del mondo di Brandon vanno fuori controllo: la solitudine della sorella lo riguarda.

La vergogna

Mi è successo che il film l’ho ripensato dalla fine, quando Aloise Lange spiega a Cheyenne cosa lo legava a suo padre: “tuo padre ha cercato di uccidermi per anni a causa del seguente episodio. L’inverno del ’43 si faceva qualcosa nel campo e lui fece qualcosa di sbagliato… minacciai di farlo sbranare dal pastore tedesco. Il cane gli ringhiò contro e lui si pisciò nelle mutande e io mi misi a ridere sonoramente. Questo è il fatto; questa l’umiliazione. Rispetto ai tanti orrori di Autschwitz, una piccola cosa… non l’ha mai dimenticata!”. Solo alla fine si capisce che Cheyenne è una persona bloccata e perché si muove come un fantasma; ho pensato che si trattasse della vergogna, e la vergogna gela tutto perché “l’affetto più intenso che una persona non è in grado di modulare è l’esperienza della vergogna” (Bromberg, 2006, 94). Al tempo stesso è il momento in cui la tua mente può fare i conti col mondo. E’ il momento in cui scopri che sei piccolo e nudo però, anche se ti pisci addosso, hai diritto ad avere un posto nel mondo perché hai un posto nello sguardo di tua madre che ti presenta tuo padre che finalmente scopri diverso da te (Gaddini,1974). Per questo non ha senso che Cheyenne per vendicare suo padre uccida Aloise Lange, ma ha senso che lo lasci nudo, la pelle del corpo avvizzita, sulla neve, in un paesaggio alla fine del mondo, dove c’e solo una baracca persa nel freddo.

Avevo appena visto Shame e anche qui trovavo che la vergogna è un processo che sullo sfondo ha sempre il gelo: Brandon che finalmente guadagna il parcheggio desolato, dove la pioggia cade e le lacrime in primo piano. Cheyenne ha appena visto cadere rovinosamente sotto i suoi occhi il pattinatore dall’abbigliamento marziano a Central Park: si vergogna per lui e, subito dopo c’è la scena surreale di un piccolo quadrato di prato finto, in un salotto, su cui sono due poltrone e una ragazza, anche lei tappezzata di stoffe a fiori come le poltrone e il cane nel cesto! L’inquadratura si allarga e compare David Byrne con la sua musica: “C’era un periodo, prima che nascessimo, in cui / Se qualcuno l’avesse chiesto, è qui che sarei stato”. Ho pensato che la musica di David Byrne era il contrario della scena surreale e fredda che era sullo sfondo ed era il contrario della vergogna che il pattinatore di Central Park non sa riconoscersi volendo sembrare diverso da quello che è. La musica è un dispositivo affettivo di base che smuove configurazioni rigide del Sé: “la fantaisie polonaise era solo un pretesto allo scatenarsi di forze che sommuovono e fanno esplodere tutto ciò che di solito viene accuratamente occultato dell’ordinamento umano” (Marai, 1942, 48). Se ce la musica non puoi stare fermo, è più forte di te. Quella musica fa pensare al camminare svelti, dondolando senza meta: “inventiamo mentre procediamo” (D. Byrne). Finché dura la musica Cheyenne è commosso (non sappiamo a cosa pensi…); può piangere circondato da mille persone felici che ballano. Così pure come in Shame la vergogna è il momento in cui un processo parte ed è la prima emozione che finalmente ti coglie in cui ti puoi rappresentare nel mondo: “l’emergere della vergogna è il momento in cui l’enactment viene riconosciuto ed entra a far parte del Sé dell’analista o del paziente”. (Bromberg, 2006, 83). Per questo, qualche giorno fa, Rolando mi ha raccontato un sogno: “ero in un parco dove c’era un buffet intorno ad un laghetto. Erano tutti amici della mia nuova compagna: gente elegante; tutti ben vestiti e accoglienti verso di me. Io ero in tensione perché dovevo stare attento a come mi esprimevo e come mi muovevo. Ad un certo punto entravo nel laghetto e mi bagnavo. Ricordo che tutti mi osservavano, ma non mi sentivo criticato. Per me era una situazione molto imbarazzante!”.

Cheyenne ha finalmente conosciuto la vergogna del padre e, quindi, ha capito perché sembrasse sempre che lui non l’amasse: “Non c’ho parlato per 30 anni con mio padre… non so quasi niente di lui!”; “Perché non gli hai parlato per 30 anni?”; “Non mi voleva bene!”. In Shame, per mille volte Brandon cerca soluzioni concrete per sentire che il mondo gli vuole bene e il mondo, per questo, gli offre situazioni eccitanti che però, come nel registro dei pazienti border, non durano mai abbastanza. Solo alla fine Brandon, può sapere finalmente di essere in un mondo che non ti ha dato nulla ed è per questo che hai provato all’infinito di riempirlo di cose concrete. Neanche Sissy, la sorella (forse solo Marianne, la ragazza della cena…) gli permettono emozioni e nel parcheggio vuoto Brandon lo sente. Brandon è un border. Secondo un ritmo quasi opposto, anche Cheyenne lo è: “un depresso – commenta Jane – non fa l’amore con la propria donna come se fosse la prima volta. Forse confondi la depressione con la noia!” Per i border è grave e pericolosa la depressione perché è il momento in cui scopri che gli affetti non possono essere sostituiti dalle cose e, se va bene, in un parcheggio vuoto senti esiste un sentimento caldo che tu non hai mai avuto (alcuni analisti hanno parlato dell’importanza per la nostra mente della conquista di un oggetto rifiutante piuttosto che la catastrofe dell’assenza di oggetti; altri hanno tenuto a differenziare no-think da nothink …). A questo punto mi dà un sottile fastidio che tanti abbiano parlato di Shame come di “sex addiction”: non c’entra nulla! Infatti: “il titolo è nato dalle molte interviste che abbiamo fatto con drogati del sesso durante la fase di ricerca: shame ricorreva spesso nelle loro testimonianze!” (S. McQueen). La vergogna è all’altro polo dell’addiction, non è mai stata rimossa; semplicemente, preziose configurazioni del Sé non hanno mai potuto guadagnare il loro spazio potenziale.

Nel mio film, entrambi i protagonisti hanno a che fare, con la vergogna che un piccolo bambino finalmente conquista quando si rende conto che non può fare a meno di suo padre e che, nonostante quello che pensava, l’ha sempre rincorso: “a 15 anni ho deciso che mio padre non mi voleva bene perché mi truccavo gli occhi come mi trucco oggi, e quando si è ragazzi non si ha mai voglia di tornare sulle proprie decisioni. Per troppi anni ho fatto finta di essere un ragazzo, ma soltanto ora ho capito che un padre non può fare a meno di amare suo figlio!” Anche Brandon all’infinito rincorre suo padre nell’uomo che possiede le donne e continuamente le cerca, e anche la sorella cerca gli uomini finché le due solitudini si incrociano in un freddo appartamento di New York. Spesso capita che i due si abbraccino, ma capisco ora la tristezza dei loro abbracci: si abbracciano due orfani perché quello è un mondo senza figli e nel gelo nessuno si accorge che l’altro ti vuole bene: “canto in un locale. Mi vieni a vedere?…Sì..Sì l’hai detto altre volte, ma non sei venuto mai. Me lo prometti?”. Ovviamente è più gelido il mondo di Brandon rispetto a Cheyenne. Ho pensato che la differenza è nella musica: i Talking Heads (“ho tempo in abbondanza… E sei qui al mio fianco”) rispetto a New York, New York, che per la prima volta ho capito che è una canzone triste che parla di separazioni: “Inizia a diffondersi la notizia, oggi partirò… Queste scarpe vagabonde, continuano a vagare”

Vedendo il film di Sorrentino mi sono accorto che in Shame ero continuamente attratto dagli sfondi piuttosto che dalle scene in primo piano: le pubblicità della metropolitana; i graffiti sui vagoni e sui muri; le scene che si intravedevano dai finestrini della metropolitana; le persone sui marciapiedi quando Brandon corre nel traffico di notte; gli altri personaggi del ristorante con Marianne…. Vedendo il film di Sorrentino ho pensato che la vergogna è una dimensione del mondo che ti cerca e che eviti ripetendoti che non hai bisogno del mondo caldo… che puoi vivere lo stesso e puoi farne a meno. Ma poi scopri che tuo padre, una volta, si era pisciato addosso e che per tutta la vita aveva cercato di annullare quella umiliazione. Anche Brandon, come Cheyenne scopre che per tutta la vita ha cercato di annullare quella umiliazione calda ed intima di sentirsi un poveraccio. La vergogna è la ricomposizione di dissociazioni difensive che ora permette l’emergere di “…una caricatura di se stesso che prima non esisteva” (Roth. 2009, 10).

Alba è molto bella, persona di successo e non ha mai problemi con gli uomini. Mi racconta un sogno in cui due ragazzi la incontrano e le dicono: “ti abbiamo visto mentre facevi le puzze!” Alba si sorprende a pensare che nel sogno non si vergognava, mentre se accadesse nella realtà per lei sarebbe grave. Confessa che sono cose che si fanno… quando si è soli! Io non intervengo, ma penso che è esattamente quello che accade in analisi fra me e lei. Io capisco, peraltro le volte in cui mi sono sentito inadeguato e in difficoltà con questa paziente così bella, interessante e severa con se stessa. Ora so bene che dovrò trovare il modo di restituirle la mia emozione calda e sgradevole di quando lei mi scopriva mentre io “facevo le puzze” e che per tanto tempo ho evitato di restituirle perché pensavo che le puzze erano mie ed io dovevo evitarle un analista che puzzava: “portare alla luce la vergogna del qui ed ora… non è un compito semplice per la stabilità professionale dell’analista” (Bromberg, 2006, 27).

La comunicazione di Cheyenne è concreta: buca il latte alle due ragazze sconosciute del supermercato senza un motivo, ma solo per trasmettere loro che “qualcosa mi ha disturbato!”. La madre di Tony guarda sempre la strada; fuma, e non dice nulla: non c’è bisogno che dica nulla! Desmond che fa domande perché è curioso, ma Cheyenne lo fredda: “Desmond, guarda che non ti ho invitato a cena per rilasciarti un’intervista!”. Per tutto il film (anche in Shame) non ha senso parlare, ma i contatti, i paesaggi e i personaggi, sono meccanici: i paesaggi gelidi nella loro nitidezza; i personaggi lineari nel loro movimento e nel loro tono a cantilena: “Richard ha i denti finti… sono troppo perfetti per essere veri!”. C’è poi l’America che non vediamo mai, quella che capisci quant’è grande e quante poche persone ci sono perse dentro e le case sono basse e le strade dritte e larghe che si incrociano a squadra. Cheyenne è uno che un tempo aveva la musica, ma ora è l’esatto opposto: ora può vivere come un parassita speculando in borsa: “le Tesko sono schizzate su: se le vendo ora guadagniamo 30 mila euro”! Il mondo in cui vive Cheyenne non è surreale, ma è ciò che resterebbe del mondo se rimanesse solo l’essenziale: l’indiano che si infila nella macchina: “le serve un passaggio?” e quando l’indiano deve scendere serve solo che sollevi il braccio sinistro… senza parole. Cheyenne, poi, tira fuori una bottiglia con succo di arancia e beve… senza parole. Nel film (come pure in Shame) la solitudine la trovi nei discorsi dei personaggi che non per forza hanno un interlocutore. Alle domande non è necessario che ci sia una risposta: “cerco un animale nazista che stava ad Aushwitz”: “…e quando lo trovi che ci fai?” Cheyenne non sa rispondere; con l’angolo sinistro della bocca si soffia il ciuffo di capelli che gli cade sempre sugli occhi e di cui si accorge quando “qualcosa mi ha disturbato… non so cosa, ma qualcosa mi ha disturbato”! Cheyenne si muove come una lastra di vetro che al minimo movimento potrà spezzarsi… Quando cambia il clima delle situazioni (quando gli viene fatta una domanda che lo espone a dover prendere una decisione) si sente disturbato e, magicamente, tenta di ristabilire il clima con un soffio. Nel film tutti poggiano su qualcosa il proprio passo pesante perché la musica di un tempo è stata sospesa: Cheyenne sul trolley e la moglie di Aloise Lange la riconosci subito perché é una vecchia che si poggia su una sedia a rotelle. Spesso le inquadrature sono radenti il suolo perché noi stessi possiamo seguire i personaggi spingendoci e trascinandoci a livello del suolo.

La soluzione del trolley

“Basta mettere le rotelle sotto la valigia e l’odiata valigia non pesa più! Ogni giorno mi faccio la stessa ossessiva domanda: ma com’è possibile che nessuno ci abbia mai pensato?” Mi è sembrata l’esatta descrizione dell’evoluzione di Cheyenne che ad un certo punto della vita scopre che non vale lo sforzo di camminare, ma si può scivolare: “com’è possibile che nessuno ci abbia mai pensato?” Infatti quando il trolley gli sfugge di mano, Rachel si sveglia e si accorge che Cheyenne, all’alba, sta partendo, dopo che suo figlio la sera prima lo ha costretto a riprendere la chitarra e lei, osservandoli si è commossa. Loro cantavano: “condividiamo lo stesso spazio per un momento o due/ e amami finché non mi si ferma il cuore”. Il film procede come un sogno lento, intenso; non so se è un sogno triste: Cheyenne procede deciso, anche se sembra che non sappia dove andare e perché. Infatti la lentezza del passo di Cheyenne e la cantilena dei personaggi, non è lentezza, ma è effettività (Bion): ciò che resta quando togli il superfluo narcisistico. E, quindi, Cheyenne non è affatto uno confuso, ma è uno determinato e deciso in quello che vuole fare (soprattutto che non vuole fare). Ho pensato che la vergogna è un affetto che viene quando tocchi la realtà e senti di poterla scalfire, magari danneggiare. E’ un sentimento effettivo che va oltre il dato concreto che la realtà ti presenta. Quando arriva la vergogna è perché non puoi più barare: il prestigiatore che sbaglia nel suo gioco e tutti lo vedono un imbroglione peraltro goffo, l’esatto opposto di quello che cercava di sembrare di essere.

Dopo molto tempo dal sogno delle “puzze” Alba è stata in montagna in bicicletta; i due figli sono voluti andare con lei; le stavano dietro: “strano – commenta – era la prima volta! perché di solito evitano di strare con me e vanno per conto loro!”. Questa volta è successo che lei è caduta e ha rischiato di farsi male. Loro da dietro l’hanno soccorsa e lei si è vergognata molto. Io l’ascolto e mi emoziono per quello che mi sta dicendo, diverso da quando si lamenta dei tanti impegni che ha e della fatica a cui la costringe l’analisi “l’ennesimo impegno della serata!”. Semplicemente le faccio notare che da tempo anch’io la seguo da dietro e forse la sua fatica per venire in seduta non è l’ennesimo impegno nella sua agenda, ma la fatica di riuscire a farsi vedere goffa e incapace… a potersi vergognare in mia presenza. Essere interessante e capace le riesce con estrema facilità, ma in quelle situazioni sente che è sola”. Io, intanto mi permetto finalmente una profonda intimità con questa paziente nel luogo in cui le puzze e le cadute ci riguardano entrambi. Penso all’analisi come al “poeta” di Freud (1908) che “…ci mette in condizione di gustare …le nostre fantasie senza alcun rimprovero e senza vergogna”.

Finalmente Cheyenne e Morderai Midler Arrivano alla casa di Aloise, messa su una distesa di neve: “almeno la sai usare quella pistola?”. Dalla tasca, ora, non viene fuori la pistola, ma una camera digitale, per inquadrare quel tedesco vecchio, il cui destino è nelle pistole, ma è enormemente lontano dalle camere digitali. Aloise da una vita si aspetta le pistole, ma non conosce affatto quel dispositivo. In fondo è la distruzione contro l’eternità dell’immagine, la fine di tutto contro la vergogna: “la fotografia è legata mani e piedi all’immagine e alla memoria: ne possiede l’eminente potenza epidemica” (Didi-Huberman, 2003, 39). Tutto sommato Aloise per il padre di Cheyenne era stato una macchina fotografica che l’aveva visto pisciarsi sotto perché il cane gli aveva ringhiato (e quella scena continuava ad esistere con Aloise che, per questo, doveva essere eliminato…). La vergogna al posto della morte, perché la vergogna è un processo vivo di trasformazione. E’ la sensazione che ho provato immediatamente nel film quando vedevo quel vecchio rinsecchito zoppicare fragile sulla neve: senti che non è possibile! un vecchio così fragile in una situazione così estrema… essere sulla neve nudi!. Pensi subito: non è possibile! Quando guadagni la vergogna guadagni un posto per la tua fragilità. Nella vergogna il freddo e la neve si sciolgono, per il tuo calore, perché cominci a viverci dentro.

Aloise puoi farlo morire, ma sarebbe la cosa più facile: il giusto prezzo della sua incapacità ad essere bravo, ma è diverso se ad Aloise restituisci la vergogna di sentirsi un pisciasotto o uno che cade goffamente e fa le puzze! E’ diverso perché se ti ammazzano non ti vede più nessuno, mentre se ti pisci sotto gli altri finalmente ti vedranno e ti riconosceranno: “ti abbiamo visto! Sei tu che fai le puzze!”.

“gli ascoltatori pazienti compresero che

la musica rappresentava un pericolo”.

(Sandor Marai, 1942)

giugno 2012

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